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Pamini (Udc): ‘Salari e frontalieri, agire con i contributi’

Il consigliere nazionale rilancia: ‘Guardiamo a cosa succede in Italia con la tassa sulla salute e vediamo se si può fare qualcosa di simile in Ticino’

Il dibattito continua
(Ti-Press)
26 marzo 2024
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«C’è poco da girarci intorno, storicamente il Ticino ha sempre avuto salari inferiori alla Svizzera tedesca, ma dal dopoguerra maggiori della Lombardia». Un Ticino che «purtroppo tra Accordo di libera circolazione (Alc) e fine del segreto bancario ha inoltre subito la tempesta perfetta, con il settore finanziario e il terziario in generale che hanno aperto le porte ai frontalieri e a stipendi minori». E ancora: «Un’utile soluzione sarebbe tornare ai contingenti, ma non si può per il diritto superiore. Quindi, ispirandoci a quanto sta facendo l’Italia con il contributo sanitario, vediamo se anche noi possiamo muoverci nella direzione di agire con dei contributi che, stando all’Italia, l’Alc e quello sui frontalieri sembrerebbero ammettere». Il consigliere nazionale Udc Paolo Pamini torna alla carica su un tema di forte attualità, quello dei salari – lo studio dell'Ufficio federale di statistica diffuso la scorsa settimana certifica il ‘ritardo’ ticinese nell’ordine di quasi 1’200 franchi al mese – e l’annosa questione di un frontalierato che «è davvero sfuggito di mano». E lo fa in un colloquio con ‘laRegione’ nel quale traccia la sua idea di manovra.

Partiamo dall’inizio: perché il frontalierato prima andava bene e ora pare essere la causa di tutti i mali? E perché c’è questa differenza salariale che pure lei sottolinea? Alla fine sono alcune aziende che pagano certi stipendi.

Dagli anni 50 al 2010 abbiamo avuto una sessantina d’anni con un equilibrio che ha fatto stare bene tutti: da un lato c’era un sistema bancario che pagava salari alti e portava benefici a tutti quelli intorno: artigianato, edilizia, ristorazione. Dall’altro, i frontalieri avevano sì salari inferiori ai residenti, ma c’era una simbiosi che andava bene a tutti. Poi, è arrivato l’Alc e, appunto come fosse una tempesta perfetta, pure il cambio del business model bancario. Ancora dieci anni fa c’erano una settantina abbondante di istituti bancari, oggi meno della metà tra fusioni o chiusure. Perché c’è questa differenza salariale chiede? Non è una sorpresa, anzi. Nel mercato del lavoro prima dell’Alc i frontalieri erano contingentati e assunti nei settori dove servivano; sicuramente non lavoravano nel terziario. Adesso, tra libera circolazione (totale dal 2014) e fine del segreto bancario (dal 2015), è cambiato tutto. Il residente lombardo si accontenta di salari per noi inferiori e per lui maggiori, cosa più che comprensibile ai suoi occhi. La frontiera lavorativa è ormai permeabile e il Ticino si avvicina agli equilibri lombardi.

Ciò detto, le soluzioni? Quelle proposte finora dall’Udc hanno cozzato contro il diritto superiore, la sinistra invece col salario minimo ha intrapreso un percorso che almeno in Ticino sembra raccogliere consenso popolare e portare risultati, anche se il Consiglio di Stato dovrà presentare un suo rapporto prima che arrivi all’ultima soglia prevista.

Abbiamo un grande problema come ticinesi, perché le regole del gioco si fanno a livello federale se non a un livello più alto visto che l’Alc è addirittura superiore al diritto nazionale. Lei parla del salario minimo, ma io resto contrario perché rende ancor più attrattivo per la manodopera di oltreconfine lavorare qui, aumentando la pressione sul nostro mercato del lavoro. Il salario minimo, inoltre, causa una sostituzione tra vecchi frontalieri e nuovi freschi di laurea. Infine appiattisce la scala dei salari in un’azienda, perché data la massa salariale che si può pagare, bisogna necessariamente abbassare i salari più alti per finanziare quelli più bassi. Questo mette sotto pressione i residenti e disincentiva la carriera professionale.

Va bene, ma un problema di salari in Ticino c’è. Dal suo punto di vista come lo si può risolvere?

Tornare a qualche forma di contingenti è molto difficile, nemmeno la Berna federale ci aiuterebbe. Bisogna pertanto trovare misure surrogate, che permettano il frontalierato di cui abbiamo bisogno senza creare sostituzione di manodopera.

Nel concreto?

Un’idea potrebbe essere una qualche sorta di contributi compensatori prelevati per ogni frontaliere assunto, pagati da lui o dalla ditta che lo assume. Se al datore di lavoro assumere un frontaliere costasse meno che un residente, ma non così tanto come adesso, probabilmente diminuirebbe l’incentivo alla sostituzione dei residenti. Questo proteggerebbe i salari di chi vive in Ticino, e creerebbe un gettito fiscale utile per sgravare le imprese o togliere pressione fiscale sui residenti. O, ancora, incentivare quei settori dove la manodopera residente manca: penso al settore sanitario e quelli con frontalieri storici.

Cosa ne pensa della tassa sulla salute cui stanno lavorando in Italia per trattenere i frontalieri? Dal loro punto di vista è fuga dei cervelli, questa.

Come sempre l’Italia è molto fantasiosa ma paradossalmente ci sta fornendo l’ispirazione giusta. In teoria essa discrimina tra cittadini che lavorano in Svizzera e che lavorano in Italia. Secondo loro tuttavia non si tratterebbe di un’imposta bensì di un contributo, che esula dal divieto di discriminazione dell’Alc. Basandoci sul principio di reciprocità fissato dal nuovo Accordo sui frontalieri allora, ci stiamo chiedendo se anche in Ticino si possa fare qualcosa simile all’Italia. Penso ad esempio a un contributo per sostenere i costi pubblici dell’accresciuta mobilità transfrontaliera in Ticino su strade e ferrovie. Attendiamo le verifiche giuridiche interne all’Italia, così come la risposta del Consiglio federale all’interrogazione depositata questo mese dai colleghi Giorgio Fonio con Piero Marchesi e Simone Gianini.

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