Ticino

Verso un vaccino senza brevetti, ma i problemi restano

Secondo il manager del pharma Alex Guillen i costi saranno abbordabili per noi, ma non per i Paesi più poveri. E la ricerca contro le epidemie resta indietro

(Depositphotos)
21 aprile 2020
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«Non credo che chi svilupperà il vaccino potrà brevettarlo: andrebbe incontro a forti accuse sul piano etico e a un pesante danno d’immagine». È l’opinione di Alex Guillen, un passato da dirigente commerciale in Chiron, Novartis Vaccini e altri grandi gruppi del settore farmaceutico. Guillen – che ora sta collaborando tramite la sua azienda di Mendrisio Switrace SA con medici italiani per produrre anche in Ticino respiratori da esportare in tutto il mondo – nota però che «questo non vale per i farmaci già brevettati che potranno dimostrarsi efficaci nelle cure. In questo caso la società che detiene il brevetto ha pieno potere, ad esempio, sui prezzi che può praticare. Col risultato che naturalmente saranno i Paesi più poveri ad avere meno accesso alle cure».

Guillen, i brevetti – normalmente di durata decennale – permettono alle aziende di ottenere introiti per finanziare la ricerca. D’altro canto, creano monopoli di fatto e la possibilità di ‘fare il prezzo’. Succederà anche con il tanto atteso vaccino contro il coronavirus?

In questo caso, mi pare difficile. Oltre al fatto che brevettare il vaccino e imporre prezzi eccessivi sarebbe controproducente sul piano della reputazione, è verosimile che molte aziende riescano a svilupparlo contemporaneamente, con modalità diverse. Quanto ai prezzi, in ogni caso, i singoli stati li concordano già prima che il vaccino venga trovato, stipulando contratti di fornitura con le grandi aziende. Normalmente i governi scelgono di legarsi ai loro ‘campioni nazionali,’ o comunque a una delle poche multinazionali in grado di garantire continuità nella produzione a livello globale: Sanofi, Gsk, Novartis, tutte in grado di arrivare a una soluzione, sebbene non prima di un anno e mezzo o due.

Quale potrebbe essere il prezzo? In passato si è parlato di un costo tra i 4 e gli 8 dollari per un ‘normale’ vaccino antinfluenzale, per gli acquirenti istituzionali.

Difficile dirlo con esattezza, anche perché è concordato separatamente con i vari governi, e naturalmente alcuni hanno più peso di altri. Non posso rivelare i prezzi, ma posso immaginare che ammonteranno a 2 o 3 volte il prezzo del vaccino contro l’influenza, giustificato dal costo della ricerca richiesta, ma dovuto anche al fatto che la domanda globale è tanta. In ogni caso, dipenderà anche dalla politica di prezzo delle singole aziende e dal potere negoziale di ciascun governo.

Si tratta di costi che non spaventano i Paesi sviluppati, ma che potrebbero risultare esorbitanti altrove.

Questo è un problema che purtroppo vediamo con tutte le vaccinazioni. Al netto delle campagne sussidiate dall’Organizzazione mondiale della sanità, sappiamo che ad esempio in Africa e in alcuni paesi asiatici l’accesso ai vaccini è appannaggio di pochi. Passato il picco mediatico dell’emergenza, c’è da temere che in alcune aree del mondo la gente continui a morire senza che ce ne accorgiamo.

Vaccino a parte, l’impressione è che la ricerca farmaceutica sia stata presa un po’ alla sprovvista da questa epidemia. Come mai?

Semplicemente, le malattie infettive non sono la priorità delle grandi aziende farmaceutiche. Anche se costituiscono una delle cause principali di morte nel mondo, non ‘rendono’ come le malattie dei ricchi: il cancro, l’obesità, la depressione. Se si va a vedere la natura dei test clinici effettuati nel mondo, si vede subito che la ricerca privata – ovvero la stragrande maggioranza di quella farmacologica – riguarda questi settori a elevato rendimento.

C’è modo di arginare questa tendenza?

È difficile, perché al netto delle speculazioni ogni impresa ha comunque bisogno di guadagnare per continuare a fare ricerca e sviluppo. Un primo passo è giunto quando le big pharma hanno deciso di allocare una percentuale dei loro profitti (normalmente sotto al 10%, ndr) alla ricerca indipendente (Investigator-Sponsored Studies), in modo che anche il medico che studia una molecola commercialmente poco interessante in un cantuccio del suo laboratorio possa sviluppare terapie efficaci. Ben vengano anche proposte come quella di creare un centro per condividere ricerche anti-Covid e savoir faire tecnologico a livello globale, in seno all’Oms.

Una pandemia è un’occasione d’oro per i conti delle case farmaceutiche?

In realtà, anche loro sono colpite dal blocco delle attività: il congelamento delle prove cliniche crea ritardi costosissimi per la commercializzazione di nuovi farmaci, col risultato che si iniziano a vedere ondate di licenziamenti. Non tutte le società usciranno bene da questa crisi. Quanto ai vaccini, si tratta di un business particolare: nel 2003 per l’aviaria si vendettero ai governi diritti ad avere un vaccino che poi, ad allarme rientrato, non si sviluppò neppure. Nel 2009 invece, con la suina, il rientro dell’epidemia lasciò le case farmaceutiche con i depositi pieni di vaccini invenduti. Poi, certo, c’è chi trae vantaggio da questa pandemia: abbiamo visto schizzare in alto le azioni di quelle imprese che producono terapie promettenti contro il coronavirus, ma bisogna fare attenzione: non sempre i mercati valutano con attenzione la differenza tra una promessa e un risultato concreto.

 

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