Mendrisiotto

Don Simone: cappellano fra sofferenze e gioie 'miracolose'

Intervista al prete in servizio all'Ospedale Beata Vergine di Mendrisio nonché rettore del santuario di Morbio Inferiore

Don Simone Bernasconi (Ti-Press)
25 gennaio 2021
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C'è il dolore fisico, ma in un malato c'è anche, e più spesso di quello che si crede, sofferenza e solitudine. Ce lo insegna questo tempo di pandemia. Seppur in un ospedale si sia sempre respirata la necessità di un sollievo, non solo farmacologico, il distanziamento sociale ne ha acuito il malessere. La malattia, qualsiasi sia la sua forma, sembra, infatti, aver sempre più bisogno di spiritualità: «Non può mai esserci indifferenza, anche nella persona che ti sembra lontana anni luce dalla fede, in quel momento lì cerca un sostegno, un aiuto, una parola di conforto». Don Simone Bernasconi, 47 anni, dal settembre 2019 è cappellano dell'Ospedale Beata Vergine di Mendrisio: «Ho sempre frequentato le corsie, come parroco di Vacallo oppure visitando miei concittadini di Riva San Vitale e Morbio Inferiore, i miei due comuni di origine. Sono stato nominato dal Vescovo, in accordo con l'Ente ospedaliero cantonale, succedendo a don Giuseppe Pessina, che era quasi novantenne e che ha ricoperto il servizio per vent'anni». 

Lo abbiamo incontrato per farci raccontare cosa significa al giorno d'oggi ritrovarsi con la salute compromessa e costretti a trascorrere da qualche giorno a più settimane in un reparto: «Certo la solitudine è accentuata. Tante volte mi sento dire 'don Simone come è lunga la giornata!'. Per questo è auspicabile che tutti i preti, particolarmente i parroci, vivano l'esperienza dell'ospedale, almeno quando è degente un proprio parrocchiano o conoscente, senza timori e senza paure. Non nascondo che all'ospedale bisogna essere pronti a incontrare ogni malato e ogni tipo di malattia. Trovi il malato di tumore, quello terminale, chi si trova lì per dei controlli o perché ha fratturato una gamba piuttosto che ha operato il ginocchio, o qualche volta malati che possono essere di natura psichica.  Certo non è più il cappellano di una volta! Ricordo quando ero bambino e andavo ancora al vecchio ospedale, specialmente quando era ricoverato mio nonno o qualche parente, accompagnando i parroci di Riva San Vitale, don Ugo Zucchetti, che è stato il mio parroco dall'infanzia fino al sacerdozio, e di Morbio, don Luigi Mazzetti».

'Il virus ha complicato gli incontri'

Per don Simone, quindi, l'ospedale è sempre stato un luogo familiare: «Ricordo che si arrivava all'ospedale e c'era l'Annamaria Albisetti che io chiamavo il cervello elettronico. Facevi un nome e lei sapeva dirti il numero della camera; conosceva la provenienza dei malati così che li indicava paese per paese. Alla ricezione ti consegnavano perdipiù l'elenco completo dei degenti. Cosa che adesso non si può più fare. Come il prete che una volta poteva entrare in tutte la camere, mentre ora non gli è permesso. Soprattutto dopo l'arrivo del coronavirus. Prima tante camere erano aperte, trovavi il familiare, incontravi qualcuno che magari non ti aspettavi essere lì. Oggi è tutto più complicato...».

Proprio concedere maggiore spazio alla presenza in ospedale di un sacerdote è la battaglia che sta portando avanti don Simone: «È un problema che ho sottolineato più volte in direzione. Se faccio parte dell'Eoc, se sono stato nominato in accordo con la Curia, se sono riconosciuto nel mio servizio di cappellano, addirittura indosso il camice da medico, vorrei che, senza andare a toccare le coscienze di nessuno, almeno all'entrata, quando si chiedono le generalità del paziente, gli si chieda anche, come una volta, se desidera la visita del cappellano. Questo devo dire che era stato accolto, tanto da pensare a dei cartoncini rinnovabili. Poi però è arrivato il Covid e la decisione è rimasta sospesa».

Quando il dolore bussa alla porta

Quando il male bussa alla porta, e dunque anche nella quotidianità dei non credenti, la ricerca di un momento di condivisione è assai presente. Don Simone ce lo conferma: «Ho incontrato persone con un loro 'credo', ma più di una volta la mia visita è terminata con un segno della Croce o con un'Ave Maria detta con fede. E questa è stata una cosa da commozione vera. Così, solitamente, quando un paziente lascia l'ospedale e torna nella propria abitazione o in casa anziani, o va a fare convalescenza, cerco di non perderci di vista, mantenendo un legame che passa da una telefonata o da una visita a domicilio. Il mio 'lavoro', infatti, non vuol essere un arrivederci e grazie».

Don Simone ama ricordare un 'collegamento' di impegni. È, infatti, anche rettore del Santuario della Madonna dei miracoli di Morbio Inferiore. Chiaro anche qui il riferimento alla mamma di Gesù: «E mi fa piacere che in ospedale le centraliniste rispondono Beata Vergine e non Obv che mi ricorda tanto un negozio che c'era ai tempi al Serfontana... Un ministero compensa l'altro e ci tengo a sottolinearlo. Affido il malato all'intercessione della Madonna dei Miracoli (invitando anche la sua famiglia alla Messa del pellegrino della domenica pomeriggio) e nello stesso tempo porto il conforto del santuario al malato. Lo dico fuori dai denti: non potrei fare unicamente il cappellano dell'ospedale. Non dico sarebbe triste, perché il malato è importantissimo, però mi mancherebbe una parte di soddisfazione. La sofferenza e la tristezza che ti porta per vari motivi il seguire un malato, le ricompensi con le gioie che ti dà il santuario».

'Capita di confidenze anche intime'

Avverte una crescita della sofferenza? «Durante la pandemia devo dire grazie a Mario Martignoni, esperto di prevenzione delle infezioni, che all'ospedale di Mendrisio, quando durante il primo lockdown non si sapeva bene dove si sarebbe andati a finire, mi ha permesso di stare vicino ai malati con le videochiamate che organizzavamo prima da fuori il nosocomio e poi da casa mia che essendo un po' un museo mi dava la possibilità di mostrare ai malati un'immagine o un quadro sacro. Nella seconda ondata, peraltro, ho richiesto con forza la mia presenza in carne ed ossa perché, come è importante per esempio lo psicologo, è importante la parte spirituale. E allora se rimaneva fuori il cappellano dovevano rimanere fuori tutti. Nel 2019, dal periodo prenatalizio fino al mese di gennaio, avevo dalle 45 alle 50 persone da visitare, quasi un terzo dell'ospedale. Quest'anno era naturalmente molto ridotto il loro numero, tanto che ho avuto la sensazione, e l'ho fatto notare, che non mi si sia avvisato quando qualcuno ha richiesto la mia presenza... forse per il grande lavoro, il grande impegno degli infermieri. Al cambio di turno i messaggi possono purtroppo non passare, sarà il periodo, lo stress, la tensione». 

Ma cosa le dicono i malati? Quali confidenze le portano? «Dipende dal malato e dal carattere. Talvolta oso chiedere: cosa sta pensando? A volte rispondono 'niente di particolare', chi la famiglia. Capita di confidenze anche intime. Mi accorgo che c'è un bisogno, anche in persone che non praticano con una certa regolarità la chiesa. In questo momento particolare, mi chiedono tante Comunioni. E mai e poi mai qualcuno mi ha rifiutato, anche le persone più 'lontane'. Cercano un saluto, una chiacchierata, anche senza recitare una preghiera. Ricordo una signora che disse all'infermiera 'mi i prevat ma piasan poc, in gesa vu mai, ma al don Simone dev vegni a truvam' (a me i preti mi piacciono poco, non vado in chiesa ma il don Simone deve venire a trovarmi). Ecco... addirittura... e fa certamente piacere».

Con la pandemia abbiamo dunque riscoperto la compassione, nel vero senso del 'patire con'? «All'ospedale senz'altro. E poi il virus mi ha fatto un gran servizio per il santuario. Quando abbiamo dovuto chiudere e trasmettere la Messa in streaming siamo risultati essere nella classifica dei primi dieci al mondo. Visualizzazioni che provenivano per il 75% dalla Svizzera, poi dall'Italia, Ucraina, Russia, Hong Kong e Stati Uniti. Nei mesi del lockdown inviavo 360 whatsapp con foto del santuario o video delle campane o delle cappelle dedicate ai santi presenti nei quartieri di Morbio. E a loro volta venivano inoltrati come una catena. Giornalmente fra marzo e maggio mille persone ricevevano un messaggio dal santuario, tanto che c'è stato chi lo ha conosciuto grazie proprio al coronavirus. Per dire che in tutte le situazioni c'è sempre un pro e un contro». 

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