Luganese

Fra tradizione e rinnovamento, senza etichette

Don Italo Molinaro, parroco della Basilica del Sacro Cuore di Lugano ci parla del rapporto fra comunità laica e fede, di ecologia e di migrazione

Don Italo Molinaro
(Ti-Press)
31 ottobre 2019
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Venticinque anni di vita consacrata, attuale parroco della Basilica del Sacro Cuore di Lugano e responsabile del settimanale cattolico della Rsi ‘Strada Regina’, don Italo Molinaro, 51 anni, conosce bene le pieghe di una società sempre più laicizzata e sempre meno a contatto con il sacro. Un aspetto che sembra allontanare individui, giovani e famiglie da chiese e oratori mettendo in difficoltà i parroci nella loro opera di evangelizzatori.

È passato un quarto di secolo da quando è diventato prete. Quanto e come è cambiato il rapporto società e fede?
Da una parte sento dentro di me il desiderio di fedeltà a quello che Dio mi ha chiamato a vivere con le persone, un servizio a cui non vedo alternativa. Una strada però che diventa sempre più misteriosa. Se una volta pensavo di avere qualche risposta, più vado avanti e più mi sento un po’ perso davanti ai cambiamenti. Per cui mi ritrovo sempre a fare delle domande e in questo il mio mestiere di giornalista mi aiuta. Mi sento insomma ‘alla ricerca’.

Uno ‘smarrimento’ solo della Chiesa?
Non credo che la Chiesa sia in una posizione diversa rispetto a tutti gli altri soggetti della società: gli individui, le famiglie, tutti siamo un po’ persi. Per questo allo stesso tempo abbiamo bisogno di essere fedeli a quello che siamo, a quello che viviamo, alla necessità di ‘starci dentro’, amarlo, volergli bene, camminare, perché qualche cosa troveremo. Dio ci aiuterà a imparare qualcosa.

La Chiesa da dispensatrice di risposte finisce quindi per porsi nella situazione di fare domande così che l’individuo sia costretto a trovare in sé le risposte. Ma quali sono le maggiori domande oggi che la Chiesa rivolge alla società?
Un esempio. Sono stato colpito da una trasmissione radiofonica dove lo psichiatra Vittorino Andreoli parlava dei nonni e di come sono bravi a raccontare ai nipoti. E a sua volta come fa bene ai bambini ascoltare storie. Ho fatto di questa riflessione il tema di una catechesi con i genitori invitandoli a raccontare a loro volta ai loro figli chi sono e qual è la loro ‘missione’. Stiamo parlando di qualcosa non di religioso ma di esistenziale. E credo che tutte queste dimensioni della vita, come l’amare, l’avere passione per la libertà, per l’ecologia, per la propria interiorità, per la capacità di ascolto, tutte queste dimensioni umane siano dimensioni profondamente divine, che Gesù vuole vivere con noi per farle crescere. Se c’è, quindi, una pista da percorrere è quella delle esperienze umane affinché siano ancor più autenticamente umane. Mi sa che di raccontare storie, nel senso bello del termine, oggi purtroppo non si ha più voglia, siamo stanchi di tutto, o non crediamo che il nostro vissuto sia così importante da essere raccontato. E dunque i nostri bambini rimangono più insicuri, perché non hanno una storia nella quale riconoscersi e sentirsi protagonisti. Sono queste le riflessioni che mi appassionano e sento che qui il Vangelo è di casa.

Trova che l’autorità del parroco, come quella del sindaco o del maestro, per esempio, abbia perso nella società di oggi quel rispetto dovuto e riconosciuto nel passato? Resta il prete un punto di riferimento?
Se parliamo di privilegi sociali ben venga la semplificazione, perché siamo in un mondo sempre più libero e democratico e sono contento che sia così. Se parliamo di rispetto della persona, che sia il prete o un altro, da questo punto di vista siamo tutti uguali. Il punto sta nel rispetto, e se manca c’è qualcosa che non va, ma in senso ampio. Il prete, come punto di riferimento, è qualcosa che, invece, non funziona più in base, in primo luogo, a canoni sociali a cui però non mi sono mai interessato. A me interessa soprattutto che ci si accolga come persone, che ci si ponga nella comunità come persone. Riconosco a qualcuno un ruolo solo nel momento in cui lo ‘gioca’, mettendo in gioco sé stesso, non la sua autorità o la sua etichetta. In questo non amo i vestiti che identificano dal punto di vista sociale, le divise; mi sento molto libero proprio perché non è per il vestito che ti devono rispettare o che tu ti devi sentire qualcuno di ‘superiore’. Dobbiamo, piuttosto, giocarci nei rapporti fra persone alla pari.

Nella vostra opera educativa, soprattutto fra i giovani, vi è stato un passaggio da semplici insegnanti di religione, nel senso più largo del termine, a conoscitori e referenti di temi ben più ampi, quali l’ecologia, l’economia, lo sviluppo sociale, così da dovervi aggiornare e preparare?
Ci troviamo in una società che sta evolvendo in tante direzioni, da dove escono tante belle sensibilità. Ha citato l’ecologia, citerei i diritti umani, l’impegno per la pace... Possono essere temi ‘di nicchia’ ma comunque stanno crescendo e quindi coinvolgono sempre più persone. Pensiamo al fenomeno Greta Thunberg. Sono esempi che ci interpellano non solo come preti ma come comunità cristiana, dove tutti insieme siamo educatori. Perché quello che ci attende nel futuro è di essere comunità cristiana che educa, e quindi non più solo il prete verso tutti ma il prete insieme ad altri, verso i giovani, gli adulti eccetera. Quest’opera educativa dobbiamo viverla insieme perché da soli, sia come preti sia come catechisti o genitori, ci ritroviamo impreparati, in transizione, ci manca spesso la competenza e forse pronti non lo saremo mai. Insieme possiamo almeno renderci conto che ci sono questioni nuove, e questo mi sembra già un grande passo avanti.

La Chiesa ticinese, rispetto a un papa, come è oggi Francesco, capace di intervenire con regolarità su temi non solo religiosi ma soprattutto sociali ed economici, pare essere più... tiepida. Lo avverte anche lei?
Mi fa una domanda difficile perché la realtà ecclesiale in Ticino è diversificata. Credo che il nostro problema sia quello di aver perso, qualche decennio fa, un ‘treno’ che passava: e cioè investire nella formazione seria e nell’integrazione più sistematica dei laici, nella missione evangelizzatrice della Chiesa, attraverso un riconoscimento ecclesiale ed economico. Se penso ad alcuni amici laici, conosciuti ai tempi degli studi, che da anni lavorano con passione e competenza per la Chiesa in Svizzera interna, e con cui ho ancora contatti, mi rendo conto di che cosa abbiamo perso! Noi qui in Ticino siamo rimasti alla figura del parroco stipendiato, con tanti che fanno ciascuno un piccolo importantissimo servizio, ma come volontari, a cui non si può certo chiedere di investire in una formazione di anni. Come risultato, oggi, è sempre più difficile trovare persone che hanno tempo e desiderio di servire una comunità a titolo volontario. E come preti, da questo punto di vista, ci troviamo più soli. Così come anche noi siamo sempre meno capaci, più anziani, meno motivati. Oppure viviamo in una bolla, in affanno rispetto a tanti begli stimoli che vengono dalla Chiesa universale. E non so come venirne fuori. Non vedo attorno a me che questo argomento sia tematizzato in modo chiaro. Ho come l’impressione che si vada avanti non dico con una certa inerzia ma senza porre le domande. Certamente nessuno ha soluzioni magiche. Forse avevo l’illusione di averle qualche anno fa, adesso certamente no, ma sarebbe bene almeno confrontarsi su questa domanda che una giornalista giustamente pone.

Quando è diventato sacerdote, 25 anni fa, si aspettava quello che ha vissuto finora? Si era augurato magari meno ostacoli, maggiori soddisfazioni?
Quando due persone si innamorano inizialmente sono spinte dalla grande forza della passione, della giovane età, mettiamoci pure gli ormoni. È una prima fase che poi viene superata e guardando indietro magari ti sembra tutto un po’ strano, un po’ comico, quasi un inganno. Eppure se non ci fosse stata, non si sarebbe arrivati a una fase B o a una fase C del proprio cammino di vita. Ecco, credo che anche per me sia un po’ così. Le mie motivazioni di partenza sono forse tramontate, quello che uno scopre è invece la volontà di essere fedele al Signore e all’uomo, per farsi compagnia gli uni gli altri e camminare insieme. Mi sento quindi in una fase meno effervescente ma più umana, più umile. È questa la mia evoluzione che, immagino, non finirà qui. Credo che sia legata all’invecchiare, al crescere come persona umana, più che a fattori religiosi.

Da guida qual è la maggiore difficoltà oggi nella gestione di una Parrocchia? Più il fatto di essere educatore, formatore, diplomatico?
Dipende dal prete. Ci sono preti che hanno delle idee, un atteggiamento, delle sensibilità con le quali ‘intercettano’ un gruppo di fedeli più tradizionali; e qui chi è più lontano, più disilluso o disincantato non si ritrova, avverte delle ‘muffe’, rituali un po’ astratti, troppo elevati o di una spiritualità disincarnata, quasi un ripiegamento sul sacro piuttosto che sulle questioni della vita illuminata dal Vangelo. Se sei così, scontenti quelli che si aspettano qualcosa di più vicino all’umano. Se, invece, sei proiettato più sull’ascolto di chi si fa mille domande, sugli indecisi, se parli delle cose che avvengono nel mondo, se cerchi di illuminarle attraverso il Vangelo, se vuoi far dibattere le persone tra di loro, scontenti quelli che vorrebbero un Cristianesimo più gerarchico, legato ai suoi classici riti, un Vangelo che non sollevi questioni scomode. Qualcuno scontenti sempre. A me piacerebbe che ci potessimo trovare almeno a livello dell’umanità e nella simpatia, senza per forza essere d’accordo su tutto. Mi piacerebbe che almeno per la persona ci fosse accoglienza. Poi sulle idee possiamo confrontarci.

A quale essere umano dunque guardare, quali insegnamenti trasmettergli per vivere pienamente non solo la fede ma tutta una vita?
Spesso quelli che si mostrano più ‘lontani’ sono i più disposti ad accogliere l’essere umano, e quelli che sono dentro a una tradizione religiosa solida e costituita mostrano a volte nei rapporti interpersonali una rigidità che rende più complicate le cose. Oggi, invece, mi sembra importante festeggiare e riconoscere quello che c’è d’importante e di bello nella vita. E ascoltare! Tutti ci lamentiamo che nessuno ci ascolta, per questo ho eliminato dalle nostre celebrazioni il cosiddetto foglietto della Messa. Se non viviamo, infatti, nella Chiesa l’atto umano dell’ascolto, il farci capire, l’ascoltare con gli occhi, il guardare in faccia una persona che legge e parla, e se non viviamo con attenzione questo ascolto, perdiamo qualcosa di fondamentale. Se ci immergiamo nei foglietti come i giovani si immergono in uno smartphone, tagliandoci fuori dal mondo, allora questo non è vero ascolto. Certo la mia mossa ha scontentato qualcuno, ma se in un luogo dell’ascolto come è una chiesa, non viviamo in pienezza l’atto umano dell’ascolto, chi vuole che poi ascolti un marito, una moglie, o dei figli?

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