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Robiei, 15 febbraio 1966: una tragedia che racconta di noi

Domenica prossima a ‘Storie’ il documentario di Fabrizio Albertini su fatti e contesto che determinarono la morte di 17 uomini in galleria

9 febbraio 2024
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Torna ad Erminio Ferrari, il regista cannobiese (come lui) Fabrizio Albertini. Da Erminio era partito con "Figli di E.”, toccante documentario sull’elaborazione del lutto e sulla vita che continua dopo la tragica morte del padre (di un padre così) da parte di Marta e Tazio, passato a “Storie” un anno fa; ad Erminio riapproda ora con la rievocazione documentaristica di un fatto storico fondamentale, sulla strada dello sviluppo delle valli ticinesi: la tragedia di Robiei, che Ferrari aveva trattato nel suo libro “Cielo di stelle” (Casagrande, 2017).

Il 15 febbraio del 1966 nella galleria d’adduzione dell’impianto idroelettrico tra la Valle Bedretto e la Valle Bavona muoiono 17 uomini, uccisi dai gas tossici che ristagnavano in una frazione del cunicolo. «Diciassette persone – celebrerà qualcuno – che con la loro vita hanno contribuito al benessere sociale». Di loro, e di chi avevano lasciato, Erminio aveva scritto prima sul giornale, 25 anni dopo, poi nel libro. Proprio da “Cielo di stelle” ha preso spunto Albertini per quello che possiamo considerare un secondo omaggio, ancorché indiretto, al compianto giornalista e scrittore; un omaggio tradotto nel documentario “Robiei 66. Anatomia di una tragedia”, che come il precedente passerà a “Storie” (domenica prossima, 11 febbraio, dalle 20.40 su Rsi La1).

Una ricostruzione ‘quasi scientifica’

«L’idea era ricostruire in maniera quasi scientifica l’evento, farlo il più oggettivamente possibile, tramite i testimoni, con una cronologia precisa», considera Albertini. Tutti elementi che traspaiono dal suo lavoro, ma che rimangono sullo sfondo di uno scenario costruito su grandi temi come lo sviluppo delle zone periferiche nel dopoguerra e la massiccia immigrazione di manodopera proveniente soprattutto dall’Italia, chiamata a realizzare opere rivoluzionarie in virtù di un’innata, atavica vocazione al sacrificio, lavorando per 3 franchi all’ora, 11 ore al giorno, 7 giorni alla settimana, non diciamo in che condizioni.

Due condanne penali

Di tutto questo, nel film, parla un altro giornalista, Eugenio Jelmini, che con la sua rievocazione di contesto, antefatti, dramma collettivo e trattazione degli eventi – compreso il processo, celebrato 6 anni dopo nella palestra delle Scuole medie di Cevio, e sfociato in due condanne – racconta dell’informazione di allora; ma anche di quella che era la giustizia ticinese, nel cui antico agone si trovava, alla pubblica accusa, Luciano Giudici.

Con i turbamenti personali vissuti in corso d’indagine è umanità pura, quella che traspare dai ricordi dell’ex magistrato a quasi 60 anni dai fatti. Lo stesso gli era accaduto ripercorrendo per la tivù (“Edizione straordinaria”) un altro dramma, ma diversa portata: il Ticinogate, dove come procuratore straordinario aveva dovuto interpretare in chiave giuridica le vicissitudini personali del giudice Verda, che bene conosceva.

Se “Robiei 66” ha un grande pregio, è quello di tornare ad illuminare fatti e circostanze di un’epoca che ha fortemente modellato il presente, e che in esso, peraltro, si rispecchia. Lo sfruttamento idroelettrico, il potenziamento della valle e del cantone, l’opportunità per la popolazione di garantirsi un’esistenza migliore: sono gli stessi argomenti con cui oggi, negli stessi identici luoghi, si perorano altri investimenti che, come quelli di allora, vengono definiti epocali: l’innalzamento della diga del Sambuco, il collegamento via teleferica fra Alta Vallemaggia e Leventina… «Nessuno sapeva l’enormità delle costruzioni – dice Jelmini nel film –, a cosa si andava incontro. Si diceva che lo sviluppo avrebbe portato ricchezza, e tutto, dopo secoli di povertà, si giustificava con quello».

Un respiro a chi lo perse

Sessant’anni dopo, con notevole esercizio stilistico, Fabrizio Albertini ridà un respiro a chi tragicamente lo perse. Riecheggia nei luoghi stessi della tragedia, oggi asettiche arterie che con l’acqua convogliano energia; ed è il groppo che si forma in gola a Giovanni Da Dalto, ex operaio Ofima, mentre su una targa accarezza piano i nomi dei colleghi morti: «Mi sembra – sussurra – di mettermi in contatto con loro».

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