Svizzera

‘La presenza obbligatoria in ufficio non è la soluzione’

Le aziende che impongono ai propri dipendenti un minimo di ore e giorni in sede rischiamo un ‘effetto boomerang’

In sintesi:
  • Studi quantitativi dimostrano che i dipendenti lavorano a casa con la stessa produttività che in ufficio
  • Secondo l'esperta, ‘le persone non si identificano più fortemente con il loro datore di lavoro e non sono più fedeli’
(Keystone)
16 ottobre 2023
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Imporre la presenza obbligatoria in ufficio non funziona, chi lo fa rende i dipendenti meno legati all'impresa: lo sostiene Johanna Bath, professoressa alla Esb Business School, cioè la scuola universitaria di Reutlingen, nel Baden-Württemberg.

«Circa un terzo dei lavoratori preferisce rimanere in mobilità il più possibile, mentre allo stesso tempo poco meno di un terzo vuole essere attivo in ufficio per la maggior parte del tempo», spiega l'esperta in un'intervista alla Neue Zürcher Zeitung (Nzz), sintetizzando i risultati delle ricerche sul campo. «Pochissimi preferiscono una distribuzione equilibrata tra telelavoro e impiego in sede».

Il pericolo di una divisione all'interno del personale quindi esiste. «Le aziende speravano che le preferenze dei dipendenti fossero più uniformi e che molti volessero una distribuzione relativamente omogenea di ufficio e presenza. Poiché gli uffici non hanno ripreso vita, molte imprese ora obbligano i propri dipendenti a trascorrere un certo numero di giorni in sede».

Ma questo non funziona. «Diversi studi dimostrano che una quota di presenza non ha l'effetto desiderato», spiega la docente di economia. «Sebbene il numero di incontri spontanei in ufficio sia leggermente aumentato, gli effetti desiderati non si sono concretizzati: né la creatività, né l'innovazione, né la comunicazione in sé sono migliorate grazie alle quote».

«Tornando in ufficio le persone non si identificano più fortemente con il loro datore di lavoro e non sono più fedeli: al contrario, si nota addirittura una correlazione con una minore identificazione nelle ditte che impongono giorni di presenza», osserva Bath. «Nelle società con obbligo di frequenza, i dipendenti sono meno leali. Un indicatore in tal senso è il fatto che i dipendenti delle aziende con quote di presenza sono in media molto meno propensi a raccomandare il proprio datore di lavoro ad altri rispetto ai dipendenti delle imprese senza quote».

La fine della pandemia ha dato alle aziende l'opportunità di pensare a come essere attive in futuro e a come sfruttare le opportunità del telelavoro: ma ben poche lo hanno fatto, sostiene l'economista. «Al contrario: molte imprese incolpano l'home office dei loro problemi e sperano in un miglioramento automatico, se solo più persone tornassero a lavorare in ufficio. Ma anche prima della pandemia non vivevamo in paradiso: c'erano problemi di comunicazione, processi inefficienti e conflitti. Invece di perdersi in discussioni sul numero ottimale di giorni di presenza, le aziende dovrebbero identificare e affrontare i problemi più profondi».

«Quando si parla di telelavoro esiste una discrepanza tra l'opinione dei capi e quella dei dipendenti», prosegue la specialista. «Diversi studi, tra cui un sondaggio condotto da Microsoft con oltre 30'000 partecipanti, dimostrano che i dirigenti valutano la produttività dei dipendenti in modo molto più basso di quella dei lavoratori. Questi ultimi affermano di lavorare in modo altrettanto produttivo che in ufficio».

Secondo l'intervistata, a valutare meglio la realtà sono i lavoratori. «Diverse ricerche hanno confrontato la loro autovalutazione con la produttività effettiva, giungendo alla conclusione che i dipendenti stimano bene le loro prestazioni nei sondaggi anonimi. Gli studi quantitativi dimostrano inoltre che i dipendenti lavorano a casa con la stessa produttività che in ufficio. Tra l'altro, anche i manager dichiarano nei sondaggi che le loro prestazioni non soffrono nel telelavoro».

«La maggior parte dei capi non sono micromanager o maniaci del controllo», puntualizza Bath. «Vogliono mantenere un buon rapporto con i membri del team. Però spesso non sono abituati a guidare esplicitamente per obiettivi, a dare feedback critici e costruttivi e ad avere un dialogo regolare sulle priorità. A volte cercano persino di evitare queste conversazioni, se portano a un conflitto. Con il tempo, si sentono a disagio perché non vedono ciò che i loro collaboratori stanno realizzando. In ufficio, questa mancanza di volontà di dialogo è meno evidente: il capo apprende implicitamente ciò su cui il dipendente sta lavorando e il dipendente sviluppa un senso di ciò che il supervisore si aspetta da lui o da lei, senza che se ne parli esplicitamente».

Questo fa sì – chiede la giornalista della Nzz – che i supervisori abbiano un legame minore con i dipendenti che lavorano a casa? «Sì», risponde la professoressa in cattedra dal 2018. «Le ricerche hanno dimostrato che molti manager che lavorano principalmente in ufficio hanno un pronunciato pregiudizio di prossimità: hanno cioè l'impressione, erroneamente, che i membri del team che vedono seduti alla scrivania abbiano prestazioni migliori rispetto ai colleghi che lavorano in casa. I membri del team in ufficio sono più tangibili per loro: sono i primi a venire in mente quando si tratta di compiti fastidiosi, ma anche quando si tratta di progetti interessanti o promozioni», conclude l'esperta.

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