Ciclismo

‘Emblema di un'epoca affascinante’

Con l’esperto Giancarlo Dionisio ricordiamo la figura di Federico Bahamontes, archetipo di tutti i più grandi scalatori, morto martedì a 95 anni

In sintesi:
  • Il ciclismo di 60-70 anni fa era in grado di costruire una mistica oggi inimmaginabile
  • La pedalata di Bahamontes, di solito sgraziato in sella, si ingentiliva paradossalmente sulle salite più dure
10 agosto 2023
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Parlare di ciclismo con Giancarlo Dionisio, ex collega che conosce il mondo delle due ruote come pochi altri, è sempre un piacere, anche se l’occasione te la fornisce la notizia di un lutto, quello del grande Federico Bahamontes, decano dei vincitori del Tour de France scomparso martedì a 95 anni.

«Parlo di Bahamontes senza mai averlo conosciuto», esordisce il Gianca parlandomi al telefono dalla sua amata Leventina, «perché appartiene davvero a un’altra generazione, e dunque mi baso soltanto su quanto ho letto o visto in filmati d’archivio. Oltretutto era spagnolo, e dunque alle nostre latitudini è entrato nelle nostre case e nei nostri cuori meno di quanto lo abbiano fatto personaggi come Ferdy Kübler e Hugo Koblet, o come gli italiani Bartali, Coppi e Magni. Riflettendo sulla sua scomparsa, e rivedendo ciò che ha fatto e vinto, mi sorprende positivamente la mistica che quella generazione di corridori è riuscita a costruire nel tempo. Infatti, se paragoniamo ciò che fece Bahamontes con quanto stanno facendo ad esempio i rampanti Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar, lo spagnolo non ha vinto moltissimo: pur essendo un fenomeno in salita, vinse un solo Tour de France, nel 1959, quando aveva già 31 anni, mentre il danese e lo sloveno – che hanno rispettivamente 26 e 24 anni – ne hanno già conquistati due a testa. Però quel ciclismo, ormai così lontano nel tempo, aveva la grande capacità di entrare nel cuore della gente, e lo faceva soprattutto grazie a rivalità molto sane, tanto che tutti amavano e sostenevano tutti, indistintamente, al di là delle nazionalità. Nel cuore delle persone c’era spazio sia per Bahamontes sia per Gaul, ma anche per Bobet, per gli italiani e per gli svizzeri».

In questo, il ciclismo è proprio diverso da qualsiasi altro sport…

Sì, e fortunatamente, anche se in forma minore, questa caratteristica nel mondo del pedale è rimasta ancora presente, anche se oggi i social, purtroppo, stanno cominciando a portare qualche deviazione, qualche deriva di pensiero un po’ preoccupante. Ad ogni modo, sulle strade – al di là dei cretini esibizionisti e di quelli che rincorrono e ostacolano i corridori mettendoli in pericolo – c’è ancora grande amore e grande affetto per tutti.

Come mai uno come Bahamontes era ancora così amato, e lo era anche fuori dalla Spagna?

Federico Bahamontes viene considerato il più grande scalatore di tutti i tempi – e ricordiamo che correva nella stessa epoca di arrampicatori fortissimi come il lussemburghese Charly Gaul – pur avendo vinto meno ad esempio di Richard Virenque, che ha vestito la maglia a pois più volte dello spagnolo. Ai tempi, però, c’era una diversa – e superiore – capacità di rendere il personaggio e di farlo entrare nel cuore della gente. Ho letto ad esempio che Bahamontes in sella era sgraziato, una specie di Fernando Escartín, per intenderci. Però Fausto Coppi, che per un breve periodo a Bahamontes fece pure da mentore, diceva che Bahamontes in salita non possedeva lo scatto dei migliori – e in questo senso penso ad esempio a Pantani – ma aveva progressioni devastanti capaci di lasciare indietro tutti. E ciò dipendeva dal curioso fatto che non era capace di correre in gruppo, forse perché aveva paura. E così, nel tentativo di tenersi lontano dai pericoli, se ne volava via. Inoltre Coppi diceva che più le pendenze aumentavano, più la pedalata sgraziata dello spagnolo si ingentiliva, tanto che – sempre secondo il Campionissimo – più che salite, quelle affrontate da Bahamontes erano ascesi. C’è dunque chi sotto sforzo si trasfigura e chi invece riesce ad auto-beatificarsi. Almeno, ripeto, stando a quanto ho letto.

Certi campioni, del resto, pur non avendo vinto così tanto – e soprattutto pur non avendo affrontato le salite di oggi, che sono molto più dure rispetto a quelle di una volta – sono diventati miti assoluti, e ciò grazie soprattutto ai giornalisti che, sulla carta stampata o alla radio, ne raccontavano mirabilmente le gesta. Non è che l’avvento della televisione ha tolto un po’ di magia? Poter vedere una tappa intera, dall’inizio alla fine, forse non è così affascinante come poteva essere invece 70-80 anni fa il racconto di chi, senza l’ausilio delle immagini, era chiamato a descrivere quel che avveniva sulle strade…

Credo che sia proprio così, e me ne sono reso conto soprattutto ascoltando i racconti di qualche collega – non molto più anziano di me – ma che negli anni 60 e 70 ha potuto seguire per lavoro le gare ancora dall’automobile, nel cuore della corsa, ai tempi in cui la tv mandava in onda solo l’ultima ora di corsa. Penso ad esempio a Gianni Mura e Beppe Conti. La tv, è vero, ha ingigantito la passione perché ha fatto da cassa di risonanza, ma dal punto di vista dell’epica della corsa ha senz’altro tolto fascino. Pensiamo anche ai Rigassi o ai Barberis, quando raccontavano le imprese di Kübler e Koblet: roba che oggi non sarebbe più possibile.

A livello biografico, qual era la cosa che più ti affascinava di Federico Bahamontes?

Il fatto che lui fosse un autentico figlio del popolo, uscito da una famiglia davvero umile scappata da Madrid perché – non essendo allineata col Franchismo – subiva troppo il peso della dittatura e che aveva cercato e trovato in provincia – a Toledo – una situazione più vivibile e meno controllata. Lui crebbe facendo quasi la fame, facendo il garzone di bottega stando molte ore in sella, finché qualcuno si accorse che pedalava davvero forte, e da lì partì la sua carriera.

Si può dire che Bahamontes fu l’archetipo del classico scalatore spagnolo?

Fu senz’altro il pioniere di questo esercizio, e lo fu a lungo, perché dovettero passare molti anni prima di rivedere un altro iberico trionfare al Tour de France, almeno una quindicina, con Luis Ocaña. Bahamontes fu, in pratica, il padre di tutti i grandi scalatori spagnoli, come Galdos e Fuente, benché questi non siano mai riusciti a vincere il Tour. Ma penso soprattutto a Delgado e a Contador, che in tempi più recenti hanno letteralmente dominato la scena, approfittando sia della tradizione – e dunque dell’esempio di Bahamontes – sia del territorio spagnolo, che ben si presta ad allenare la resistenza e lo scatto in salita.

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