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‘Gullit è come cervo che esce di foresta’

Moriva dieci anni fa Vujadin Boskov, leggendario allenatore giramondo che, oltre a preziosi insegnamenti, lasciò battute e aforismi entrati nella storia

In sintesi:
  • Il tecnico serbo, che giocò e allenò anche in Svizzera (Young Fellows e Servette), regalò alla Sampdoria uno storico scudetto
  • In carriera, allenò anche in Olanda, Spagna e sedette pure – in due periodi distinti – sulla panchina della nazionale jugoslava
  • Celeberrime sono alcune sue frasi, geniali quanto a volte surrealiste, ormai entrate nel vocabolario di chiunque segua il calcio
27 aprile 2024
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Al suo funerale, fra tutti i suoi ex giocatori, si erano presentati soltanto Katanec e Mihajlovic. Vabbeh che Novi Sad non è proprio dietro l’angolo, ma per un personaggio come lui – che aveva fatto del gruppo una famiglia e dei rapporti umani la base per raggiungere il successo – ci si sarebbe aspettati una partecipazione più massiccia.

«Almeno Gianluca ha telefonato, lo ha fatto spesso negli ultimi anni». Yelena, la vedova, si riferiva a Vialli, un altro che, proprio come Sinisa, ci ha lasciato troppo presto. «La cosa più bella, ad ogni modo, è stato vedere un gruppo di ragazzi, tifosi italiani, che si sono sobbarcati il viaggio fin quaggiù – e magari è gente che guadagna 600 euro al mese – solo per appendere fuori dalla chiesa il loro striscione, che diceva ‘Ciao grande Vujadin’. Quando l’ho visto, ho pianto, e l’avrebbe fatto anche mio marito». L’altra cosa che avrà consolato il caro estinto, vale a dire l’impareggiabile Vujadin Boskov, fu vedere che davvero per le sue esequie era stata ingaggiata – secondo il suo desiderio e come in un film di Emir Kusturica – un’orchestrina zingara che avrebbe suonato e cantato per tutto il pomeriggio vecchie canzoni di amicizia e battute di caccia, la sua grande passione.

Giocò due Mondiali

Sono già passati dieci anni dalla scomparsa di ‘Zio Vuja’, come il tecnico serbo veniva chiamato ai tempi della Sampdoria, la squadra dove raccolse i suoi migliori risultati da allenatore, e in cui lasciò i migliori ricordi di sé stesso, come tecnico certamente, ma soprattutto come uomo. Venuto al mondo nel 1931 a Begec, villaggio che sorge lungo il Danubio, il mediano dai piedi educati Boskov – che da ragazzo si ispirava al magiaro Hidegkuti e al brasiliano Didi – divenne una colonna del Vojvodina, il club più amato della regione. Pur mettendocela tutta, in oltre dieci anni di militanza non riuscirà a regalare ai suoi tifosi nemmeno un titolo, anche perché nella Jugoslavia di allora a vincere erano sempre e soltanto i belgradesi Stella Rossa e Partizan, gli spalatini dell’Hajduk e la Dinamo Zagabria.

Le soddisfazioni maggiori, dunque, Boskov se le toglie con la maglia della Nazionale, con cui giocò una sessantina di volte e con la quale, per ben due volte, prese parte al Mondiale: nel 1954 in Svizzera e nel 1958 in Svezia, quando i plavi vennero eliminati – entrambe le volte – dalla Germania Ovest ai quarti di finale. Ragazzo di buona educazione e di variegate letture, Vujadin studia fino a laurearsi in storia – percorso piuttosto raro nel mondo del pallone – e sposa la già citata Yelena, attrice drammatica, giornalista affermata e intellettuale di spessore.

Una vita nomade

Compiuti i trent’anni – l’età minima nella Jugoslavia di quei tempi per poter andare a monetizzare sui campi esteri di calcio e basket – con moglie e figlia Boskov sbarca a Genova, sponda blucerchiata, dove un infortunio ne compromette le prestazioni. Nell’unica stagione alla Samp, infatti, metterà insieme soltanto 13 partite e un unico gol.

Visti i magri risultati, tutti pensano che la famigliola stia per fare immediato rientro in patria, ma l’Occidente – con quelle libertà che al di là della Cortina di ferro non sono nemmeno immaginabili – ha ormai conquistato Boskov e consorte, che decidono di accettare le lusinghe e i franchi messi sul piatto dallo Young Fellows, e approdano a Zurigo quando Vuja, dal fisico ormai piuttosto logoro, va per i trentadue anni.

Il trasferimento sulla Limmat sarà per lui come vincere al lotto: un giorno il tecnico austriaco Patek si infortuna durante un allenamento, toglie il fischietto di bocca, lo allunga a Boskov e gli ordina: «Continua tu». Fu dunque nella doppia veste di allenatore-giocatore che il serbo concluse una lunga carriera in cui non venne mai né ammonito né espulso.

Allenare, scopre, gli piace e così nel 1964 rientra al Vojvodina e, dalla panchina, lo porterà finalmente al tanto agognato titolo jugoslavo, un miracolo sportivo che indurrà i dirigenti federali ad affidargli – quando ha solo quarant’anni – la guida della Nazionale. Nel 1974 però, per colpa di problemi personali col maresciallo Tito e per via dei magri stipendi elargiti a Belgrado, Vujadin opta per un nuovo esilio, che lo condurrà dapprima in Olanda – al Den Haag e al Feyenoord – e poi in Spagna.

Nomade per vocazione, lascia ottimi ricordi ovunque gli succeda di allenare. Al termine di una buona stagione a Saragozza, a ingaggiarlo è addirittura il Real Madrid, che dopo molti anni lontano dalla ribalta continentale intende tornare a ricoprire un ruolo importante. E Boskov, alla guida di giocatori come Juanito, Stielike e Santillana, non trema: vince subito la Liga e l’anno seguente (1981) condurrà le Merengues alla finale di Coppa dei campioni, poi persa a Parigi contro il Liverpool diretto da Bob Paisley e trascinato in campo da gente del calibro di Souness, McDermott, Alan Kennedy e Kenny Dalglish.

Di nuovo in Italia

Come premio, a Boskov viene rinnovato il contratto, ma per una sola stagione: il leggendario Alfredo Di Stefano, infatti, scalpita per la panca madridista, su cui riuscirà a sedersi l’anno successivo, inducendo Vujadin a raggiungere Gijón, dove si apre il secondo capitolo della sua carriera, quella che più tardi lo porterà in Italia, un Paese dove il suo credo calcistico – ma soprattutto il suo acume e la sua ironia – sapranno emergere appieno. E dove, grazie alla sue battute sospese fra surrealismo e saggezza, diverrà un personaggio amato in modo davvero trasversale, ancora oggi rimpianto e citato a ogni piè sospinto.

Dotato di un naturale senso dell’umorismo e di un’intelligenza fuori dal comune, Vuja era pure un fine psicologo, impareggiabile nella gestione del collettivo: coi suoi giocatori era un padre capace di perdonare, ma quando era il caso sapeva essere pure un insegnante severo. Autentico uomo di mondo ed esperto di geopolitica, abile intrattenitore nelle cene a cui spesso invitava i giornalisti (non solo sportivi), Vujadin Boskov era pure un formidabile poliglotta benché – come tutti gli slavi quando parlano lingue latine – facesse a meno di articoli e verbi ausiliari.

Ed è anche grazie a questa sua parlata originale che le sue massime, divenute col tempo proverbiali aforismi – almeno per chi mastica calcio – ebbero un successo straordinario. Va detto però che il più citato – quello secondo cui un vero uomo non può mai preferire una cena romantica a una partita di Champions League in tv – è in realtà un falso storico, un apocrifo che il buon Vuja non pronunciò mai.

Perdomo e il cane del Mister

Autentiche sono invece perle di lapalissiana saggezza come ‘rigore è quando arbitro fischia’ o ‘nel calcio c’è legge contro allenatori: giocatori vincono, allenatori perdono’ oppure ancora ‘La zona? Un brocco resta brocco anche se gioca a zona’. Senza dimenticare che ‘pallone entra quando Dio vuole’, che ‘più bravi di Boskov sono quelli che stanno sopra di lui in classifica’, che ‘vincere è meglio che pareggiare, e pareggiare è meglio che perdere’ e che ‘un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri’. Entrate nelle enciclopedie sono pure alcune definizioni insieme poetiche ed efficacissime, quali ad esempio ‘Gullit è come cervo che esce di foresta’ o ‘Lombardo è come Pendolino che esce di galleria’.

Storica fu pure una sua esternazione relativa a un uruguayano appena ingaggiato dal Genoa, rivale cittadino. ‘Se slego mio cane – disse celiando Boskov coi giornalisti al termine di un allenamento – lui gioca meglio di Perdomo’. Uno dei cronisti, poco saggiamente, riportò la frase sul suo giornale, e all’ombra della Lanterna scoppiò il finimondo. Vuja allora cercò di rimediare, ma finì soltanto per peggiorare le cose: ‘Io non dire che Perdomo giocare come mio cane. Io dire che lui potere giocare a calcio solo in parco di mia villa con mio cane’. Una battuta che al serbo costò ben 27 milioni delle vecchie lire: 10 di multa comminata dallo stesso presidente doriano Paolo Mantovani, e gli altri 17 per tutto ciò che gli vennero a costare la denuncia e il processo per diffamazione a cui fu sottoposto. Del resto, lo abbiamo visto anche di recente: in Italia un tesserato può dare del negro a Juan Jesus e farla franca, ma guai a dire che uno gioca come una bestia.

Un gruppo irripetibile

Ascoli, Napoli, Roma (dove fece esordire il sedicenne Francesco Totti) e Servette furono le sue altre panchine, ma il suo autentico capolavoro lo realizzò senza dubbio nel periodo doriano, alla testa di un gruppo irripetibile di cui facevano parte campioni come Vialli, Mancini, Pagliuca, Vierchowod, Cerezo, Lombardo, Dossena… Sei stagioni istoriate da qualche Coppa Italia, una Coppa delle coppe, uno scudetto davvero miracoloso e una finale persa di Coppa dei campioni, nel 1992 a Wembley contro il Barcellona di Cruyff.

Quando nel 1999 il presidente del Perugia Gaucci lo cacciò in modo assai maleducato, Boskov prese il largo senza nemmeno svuotare il suo ufficio, dove appeso al muro rimase il famoso fischietto di Patek, che Zio Vuja si era portato appresso per tutta la sua carriera. Aveva deciso che non avrebbe più allenato, e dunque non gli sarebbe più servito. Pochi mesi più tardi, però, accettò l’offerta della Federazione calcistica di Belgrado, e l’ultima sua panchina fu dunque quella dell’ultima Nazionale jugoslava che prese parte a un grande torneo, l’Europeo del 2000. Il Paese, però, si era intanto tragicamente frantumato, e somigliava poco o nulla a ciò che era stato un tempo.

Boskov trascorse i suoi ultimi anni facendo vita ritirata: una forma molto aggressiva di Alzheimer, infatti, lo aveva pesantemente minato. Durante gli ultimi tre mesi, addirittura, aveva smesso del tutto di parlare. Ma la sera prima della morte – che lo colse ottantaduenne – quando Yelena gli diede la buonanotte, lui le rispose dicendole ‘ciao’.

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