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Quando aprirono il Mausoleo di Lenin solo per Diego

La romanzesca notte moscovita di 33 anni fa, esempio perfetto del rapporto mai realmente sbocciato fra Maradona e la Coppa dei campioni

In sintesi:
  • Nel palmarès continentale di Maradona figura soltanto una Coppa Uefa, considerata un trofeo minore
  • Nel 1990, nei quarti di Coppa dei campioni, il Napoli affrontò lo Spartak: il geniale ma capriccioso Diego dapprima non partì coi compagni di squadra, poi li raggiunse a Mosca con un volo privato
  • In quegli anni, oltre che al ‘primo’ declino del Pibe – capace comunque di far aprire il Mausoleo di Lenin solo per lui – si assisteva pure al disgregamento del comunismo e di un certo tipo di Europa
18 aprile 2023
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Lionel Messi ha dovuto combattere anni, col mondo e con sé stesso, per conquistare finalmente – ormai trentacinquenne – quella Coppa del mondo che, malgrado innumerevoli tentativi, ancora mancava nel suo palmarès. Si è trattato dell’investitura definitiva che, infine, gli ha permesso di poter davvero sedere alla destra del padre, cioè Maradona, che il titolo iridato era riuscito a regalarlo al popolo argentino quando di anni ne aveva solo venticinque.

A nessuno, però, è mai passato per la mente di rimproverare a Diego di non aver mai alzato una Champions League, coppona di cui la Pulce ha invece fatto incetta. Stranezze del calcio e di coloro che per esso delirano. Nel carniere del Pibe, evidentemente, basta e avanza una singola Coppa Uefa vinta contro lo Stoccarda.

Colpa dell’urna

Poche, sfortunate e inevitabilmente teatrali si sono rivelate le relazioni di Maradona con la Coppa dalle grandi orecchie. L’occasione inaugurale, presentatasi dopo il primo mirabolante scudetto della storia del Napoli – che a livello storico e sociale valse quanto l’intera bacheca di Juventus e Barcellona – durò davvero pochissimo. Colpa di un sorteggio crudele che riservò ai partenopei già al primo turno (1/16 di finale) nientemeno che il Real Madrid. Le Merengues non erano più quelle del ciclo d’oro di trent’anni prima (Puskas e Di Stefano) e nemmeno erano paragonabili alle squadre stellari che avremmo visto nel futuro (Raul, Zidane, i due Ronaldo, Modric…), ma erano comunque una signora squadra (Butragueño, Michel, Hugo Sanchez), con un’esperienza di campagne continentali dieci volte maggiore di quella dei napoletani. E infatti, al termine del doppio confronto – 2 a 0 a Chamartín (Michel e autorete di Di Napoli) e 1 a 1 a Fuorigrotta (Francini rispose al Buitre) – a qualificarsi comodamente furono proprio i Blancos.

Colpa dell’urna, si diceva: a Diego e compagni la sorte avrebbe infatti potuto riservare avversari ben più deboli. Il Lillestroem sfidò ad esempio il Linfield, lo Shamrock Rovers affrontò l’Omonia Nicosia, l’Aarhus se la vide con la Jeunesse d’Esch, e fra le 32 squadre in lizza al primo turno figuravano pure Cfka Sredec, Vardar, Hamrun Spartans, Voros Meteor, Fram Reykjavik, Partizan Tirana e Kuusysi Lahti.

Eppure, come detto, la dea bendata e criteri assai discutibili nella nomina delle teste di serie vollero che al Napoli di Ottavio Bianchi toccasse il Real Madrid di Leo Beenhakker, capace poi di eliminare nei mesi seguenti il Porto campione in carica e il Bayern Monaco, e di arrendersi solo in semifinale al Psv Eindhoven che poi avrebbe vinto il trofeo sconfiggendo ai rigori il Benfica.

Più fortunata e più scafata fu la rosa partenopea che, tre anni più tardi, prese parte alla seconda avventura in Coppa dei campioni. La conquista della Coppa Uefa nel 1989 e del secondo scudetto nel ’90 conferivano infatti agli azzurri credenziali assai migliori di quelle che si erano portati in dote al debutto nel massimo trofeo continentale.

E più benevolo, senza dubbio, si mostrò pure il sorteggio: nei 1/16 ai partenopei toccarono i magiari dell’Ujpesti Dozsa – che vennero liquidati con due facili successi (2-0 e 3-0) – mentre agli ottavi gli italiani pescarono lo Spartak Mosca, certamente fra le più deboli in un novero di squadre che comprendeva club come Bayern, Porto, la Stella Rossa poi vincitrice del torneo, i Rangers, il Real, il Milan e l’Olympique Marsiglia futuro finalista. Eppure, di nuovo, l’avventura europea napoletana fu destinata a esaurirsi assai presto.

Muri e scricchiolii

Era il novembre del 1990, il Muro di Berlino era crollato ormai da un anno e anche gli scricchiolii dell’Urss erano ormai nitidamente percepibili da tutti. Ma insieme al declino del comunismo, in quell’ultimo atto del Novecento stava per andare in scena pure una caduta personale, quella di Diego Armando Maradona, che all’improvviso in Italia e soprattutto a Napoli si trovò detronizzato e delegittimato. Società e tifosi, infatti, da un giorno all’altro avevano deciso di non più tollerare le sue follie e i privilegi che – in cambio delle sue magie e del fatto di aver dato alla città un tipo di dignità che fin lì le era sempre stata negata – tutti gli avevano concesso senza batter ciglio.

Erano dunque ormai finiti i tempi in cui al Pibe era permesso di allenarsi solo il giovedì e il venerdì e, al limite, di fare una sgambatina il sabato. Ora tutti – dal dg Moggi al presidente Ferlaino – pretendevano che el Diez si facesse vedere a Soccavo a lavorare coi compagni anche il martedì e il mercoledì, giorni in cui – per tradizione – a tutto pensava Diego fuorché al calcio.

L’inizio della settimana, fin dal suo sbarco imperiale di sette anni prima, era infatti dedicato alle notti brave e alle frequentazioni pericolose. Ma, come detto, ora ciò non veniva più tollerato: a Maradona non si perdonava di aver eliminato l’Italia nella semifinale del Mondiale casalingo – che pareva apparecchiato per il trionfo degli azzurri – e dunque nessuno, nemmeno a Napoli, era disposto a sopportare i suoi capricci. Lui non intendeva cedere e, pur di continuare a saltare gli allenamenti, si inventava fastidi e malattie immaginarie.

Il gran rifiuto

La convivenza diventò problematica, le ripicche toccarono vette inimmaginabili e così, il giorno della partenza per Mosca, dove il Napoli avrebbe dovuto appunto affrontare il ritorno degli ottavi di Coppa campioni, Diego decise che, per via di certi dolori agli adduttori, non sarebbe partito con la squadra, e lo fece sapere a tutti. A nulla servirono le suppliche dei sodali Ciro Ferrara, Crippa e De Napoli, che passarono da casa sua prima di recarsi all’aeroporto. Maradona, quella volta, non li fece nemmeno entrare, e così il Napoli – per la gioia dei tifosi dello Spartak – partì per la capitale sovietica senza il suo condottiero, che venne messo fuori rosa seduta stante.

A Diego e al suo clan, ad ogni modo, piacevano i colpi di scena e un finale così banale della vicenda non li avrebbe certo soddisfatti. E così, da vero caudillo, soltanto poche ore dopo il gran rifiuto, decise di partire per la Russia: a Mosca ci sarebbe andato eccome, ma per i fatti propri. Mise le Puma in un sacchetto di carta e ordinò alla moglie Claudia di organizzare in fretta e furia un volo privato.

E fu così che, per la bellezza di 19 milioni di lire (che all’epoca corrispondevano a 23mila franchi) Maradona e il suo codazzo – fra cui un cameraman che lo seguiva ovunque – poco prima delle 23 del martedì sbarcarono allo scalo moscovita di Sheremetyevo, da cui si trasferirono poi su una manciata di taxi (come il grande Calboni) verso il migliore hotel della città, ovviamente diverso da quello occupato dai compagni di squadra.

Giro turistico

Dopo una cena in camera, el Pibe alle due di notte riuscì a ottenere ciò che ai semplici umani non sarebbe mai stato concesso: farsi scortare dalla polizia in un giro turistico comprendente la Piazza Rossa, che dovette essere aperta apposta, essendo blindata quella sera: l’indomani infatti, il 7 novembre, cadeva l’anniversario della Rivoluzione d’ottobre, e tutto era già allestito per le parate ufficiali. Ma per gli Dei, anche nella laica Urss, si era pronti a fare un’eccezione.

Le foto scattate quella notte ritraggono militari sorridenti abbracciati a Diego, che aveva calato in testa un colbacco d’ordinanza ed era avvolto in una pelliccia esagerata mentre varcava la soglia del Mausoleo di Lenin.

E a Lenin era dedicato pure lo stadio dove la sera seguente il Napoli avrebbe cercato la qualificazione ai quarti dopo lo 0-0 ottenuto al San Paolo due settimane prima. Ferlaino e Moggi avevano deciso che Maradona non sarebbe sceso in campo nemmeno se si fosse presentato con San Gennaro in persona, ma l’allenatore Albertino Bigon – più saggio – riuscì a convincere i dirigenti a permettergli di portarlo almeno in panchina, da dove lo avrebbe fatto alzare solo in caso di estrema necessità. E così al minuto 65’, sotto il nevischio e col risultato inchiodato allo 0-0, Diego col numero 16 sulle spalle andò a sostituire uno spento Gianfranco Zola. La parità si mantenne fino al 120’ e per decidere chi avrebbe superato il turno si resero necessari i rigori. Fra i russi segnarono tutti, compreso il futuro luganese Igor Shalimov, mentre ai napoletani non bastò il gol di Diego, perché a sbagliare dagli 11 metri ci pensò Baroni.

Addio Novecento

Non si sa se, al ritorno, Maradona viaggiò col resto della squadra, ma è certo che la sua lunga e vincente avventura a Napoli stava per concludersi nel peggiore dei modi. La primavera successiva fu infatti sgambettato da un controllo antidoping, per la gioia – e forse con la complicità – di Ferlaino, che finalmente aveva una scusa per rescindere l’onerosissimo contratto di Diego, che solo un anno prima aveva sudato sette camicie per convincerlo a firmare. All’atto finale, oltre all’Urss e a Maradona, era nel frattempo giunta anche la Jugoslavia che, proprio quell’anno, grazie alla Stella Rossa, riuscì a conquistare la sua prima e ultima Coppa dei campioni. Dopodiché, anche su Belgrado e su tutto il resto del Paese, calò una tragica e lunghissima notte.

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