VELA

Una barca nata per caso per abbattere le barriere

La storia di Stefano Garganigo diventato velista dopo l’incidente e di una piccola chiglia che annulla le differenze. ‘In acqua le protesi danno fastidio’

Una passione nata scrutando le onde sul lungolago di Lugano. ‘Finché, un giorno, ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa’
27 luglio 2023
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Scrutava le onde del lago davanti a Lugano sognando di salire un giorno su un cabinato, per trascorrervi le notti ormeggiato da qualche parte. Ora che ha cinquant’anni, invece, Stefano Garganigo quello stesso lago lo vive in tutt’altro modo. Così come il mare. Cioè facendo delle regate, in giro per il mondo magari, dentro un piccolo 2.4mR, imbarcazione di poco più di quattro metri il cui progetto risale all’inizio degli anni Ottanta. Quando videro la luce le iconiche imbarcazioni della classe 12m JI che in qualche modo rivoluzioneranno la Coppa America, e di cui lo scafo del futuro 2.4mR era un semplice modellino in scala. «In pratica – racconta il velista di Balerna – prima di realizzare la 12m JI fecero delle prove in vasca con una barca di poco più di 4 metri, il 2.4 mR appunto, e all’ingegnere svedese Peter Norlin venne l’idea di farci un buco e trasformarla in barca paralimpica. Ciò che accadde davvero, me lo potrei immaginare così: mentre si trovava in acqua per i test, qualcuno passò davanti a quella barca in miniatura e si chiese se non fosse il caso di provare a utilizzarla anche in quel modo».

Infatti, essendo la versione in miniatura della 12m JI, nonostante sia una piccola barchetta il 2.4 mR è dotato di chiglia non di una deriva, e le chiglie impediscono alle barche di scuffiare, cioè di capovolgersi. Ciò che a una barca paralimpica non deve accadere.

Già. Sulle piccole derive, nel caso in cui la barca dovesse scuffiare una volta che ci si ritrova in acqua si poggiano i due piedi sulla deriva e, facendo da contrappeso, la si solleva a forza. Un disabile, però, questa cosa naturalmente non la potrebbe fare.

Possiamo dire che è una barca che abbatte le barriere tra disabili e normodotati?

Sì, possiamo dire che annulla le differenze in acqua. Io mi alleno sull’alto lago di Como perché c’è più vento che a Lugano, ma a Dervio di quella decina di equipaggi sono l’unico disabile. Voglio dire che il 2.4 mR è una barca che piace anche ai normodotati, perché è tecnica, ci sono molte regolazioni da fare, e così ci vanno volentieri. Penso soprattutto a chi va con le derive come il Laser, ma con il passare degli anni non ce la fa più: parliamo pur sempre di barche molto fisiche, e quei velisti a cinquanta o a sessant’anni scelgono il 2.4 mR perché fisicamente è meno gravoso. Insomma, in questa classe ci sono sempre nuovi velisti, con magari alle spalle una quarantina d’anni di regate: ecco perché è una classe impegnativa, a livello tattico ma anche a livello tecnico.

Pur trattandosi di un’imbarcazione a chiglia, con il mondo delle derive il 2.4 mR ha in comune la caratteristica d’essere una – cosiddetta – barca bagnata.

Effettivamente navighiamo all’incirca venti centimetri sopra il pelo dell’acqua, e se fino ai dieci nodi di vento tutto è tranquillo, non appena il vento sale, parliamo di venti, venticinque nodi, imbarchiamo un sacco di acqua. Naturalmente risolviamo il problema grazie alle pompe: a bordo ne abbiamo di due tipi, una manuale e l’altra elettrica.

Qual è stato il primissimo approccio di Stefano Garganigo con la vela?

Lavoravo sul lungolago di Lugano, e continuavo a guardare il lago. Finché, dodici anni fa, ho pensato che avrei dovuto fare qualcosa. Mi son detto, ‘compro un cabinato, così posso dormirci e passare le notti in rada nei weekend’. A quel punto ho contattato il Circolo velico lago di Lugano e mi dissero che qualche settimana più tardi sarebbero arrivati quelli della Lega navale di Milano per presentare un’imbarcazione pensata per i disabili. È lì che ho fatto la prima uscita con il 2.4 mR.

Fu amore a prima vista?

A dire il vero non fu nulla di spettacolare, perché c’erano sì e no cinque o sei nodi di vento. Loro, però, mi dissero che a Dervio, sul lago di Como, dove hanno la sede, ci sono sempre almeno una dozzina di nodi. È lì che ho fatto la scuola vela, ed e lì che mi alleno. E una volta finite le lezioni sono arrivate le prime regate, dapprima zonali, poi nazionali e infine internazionali.

Insomma, quando guardava il lago e sognava di navigare non aveva mai messo piede in barca.

Sì, purtroppo sono arrivato tardi alla vela. Avevo all’incirca trent’anni, e in quel modo ho perso tutto l’apprendimento tipico dei bimbi, i quali assimilano molto da piccoli a bordo degli Optimist. L’incidente l’ho avuto all’età di ventisei anni, e mi è costato l’amputazione delle due gambe: quindi ora cammino grazie all’uso di protesi, e quando sono in barca le tolgo, perché – appunto – su un 2.4 mR sono inutili. Anzi, danno soltanto fastidio.

Se già alla base della vela c’è il concetto di libertà, si può solo immaginare cosa significhi per un disabile riuscire ad andare in barca da solo.

In realtà credo che il concetto di libertà sia un po’ comune a tutti i velisti. Effettivamente, però, nella vita di tutti i giorni nella realtà urbana sia le protesi, sia la sedia a rotelle sono un impedimento. Così, quando sono dentro la mia barca, dove le gambe non servono, mi sento uguale agli altri.

Nonostante tutto, però, alle nostre latitudini il 2.4 mR fatica a farsi largo.

È così. Infatti in tutta la Svizzera ci sono soltanto due velisti che ci vanno: uno sono io, l’altro è un lucernese, ed è un normodotato che arriva dalla classe Star, barca simile ma più grossa. Ecco perché ogni tanto mi alleno con la nazionale italiana: in Italia non soltanto ci sono gli allenatori ma ci sono pure i mezzi, mentre da noi tutto questo non esiste. Tanto che io un paio d’anni fa ho fondato un’associazione per racimolare qualche risorsa, ed è grazie a quel po’ di soldi che entrano che posso permettermi di fare le regate.

Il problema, pensando allo sviluppo della vela tra i disabili, è che otto anni fa la disciplina è stata esclusa dai Giochi paralimpici.

È dal 2016 che World Sailing sta spingendo per far sì che il nostro sport venga reinserito nel programma delle Paralimpiadi, e lo fa finanziando quei Paesi che ancora non fanno parte del circuito internazionale. Infatti, quand’era stata decisa l’esclusione della vela, la motivazione fu che l’intero movimento non arrivava a contare trentadue nazioni, mentre invece ora che ce ne sono quaranta la situazione non è cambiata… In futuro non so come sarà, perché non conosco i meccanismi, ma la questione è senz’altro politica, non sportiva.

Il sogno di Stefano Garganigo, invece, qual è?

Mi piacerebbe che altra gente come me, altri disabili intendo, seguissero il mio esempio. Niente di più, niente di meno. Mi piacerebbe creare un team composto da velisti disabili e normodotati che possano fare delle regate un po’ ovunque nel mondo con il numero velico svizzero, ovvero con la scritta ‘Sui’ sulle vele.

Quel sogno potrà realizzarsi?

Allora: il fatto è che tra i velisti il 2.4 mR è etichettato come un’imbarcazione per disabili. Quindi, diciamo, che molti normodotati non ne sono interessati. Ma questo solo perché non conoscono la barca: infatti una volta che ci salgono e ci spendono del tempo, poi tornano e ti dicono ‘sì, è vero, è una bella barca perché è abbastanza tecnica’, e va a finire che si appassionano. Tuttavia, fin quando non ci sarà la possibilità di farla provare ai normodotati, l’etichettatura di barca per disabili rimarrà. Per quanto riguarda i disabili, invece, per così dire, il problema sono le cifre: c’è poca gente, specialmente in Ticino. Ma non parliamo di grandi numeri: ne basterebbe uno, uno che s’appassioni come ho fatto io...

Non è che, forse, insistendo sulla sua complessità, definendo cioè il 2.4 mR come barca molto tecnica, ciò faccia da deterrente ai disabili che vorrebbero avvicinarvisi?

Secondo me, una persona che mai è salita a bordo di una barca non capirebbe la differenza. È vero, la nostra è un’imbarcazione molto tecnica, ma la base è pur sempre quella. In altre parole, le prime volte che uno esce userà soltanto due scotte, una per la randa e l’altra per il fiocco. Il resto delle regolazioni le apprenderà in un secondo tempo.

E se invece, a differenza di tennis, atletica e basket che sono realtà consolidate nello sport per disabili, quella della vela fosse semplicemente una realtà sconosciuta?

Ciò che posso dire io è che quando ho iniziato ad andare in barca avevo trent’anni, mentre quando ho avuto l’incidente ne avevo ventisei: se qualcuno mi avesse introdotto subito alla vela, a ventisei anni intendo, in qualche modo sarei stato più agevolato nel mio percorso, diciamo, di inserimento nella società. Nel mio tempo libero io gioco anche a tennis in carrozzina, ma la vela è un’altra cosa: perché mi fa girare il mondo, ma soprattutto mi permette di allenarmi e fare sport all’aria aperta. Questo, unito a tutto l’entusiasmo che si può magari riconoscere nei bambini alle prime armi indaffarati con i loro Optimist, credo possa essere veramente da stimolo a un disabile confrontato da poco con il proprio incidente.

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