L'EVENTO

‘Posso battere Kennedy a golf’. Perché non è mai soltanto sport

L’effetto matrjoska di Massimo De Luca apre venerdì la programmazione teatrale al LongLake Festival. Quattro storie principali in un gioco di rimandi

Anni pesanti, anni di piombo. ‘E se la finale di Davis tra Italia e Cile si fosse tenuta a Roma, sarebbe stata giocata?’
5 luglio 2023
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L’autorevolezza e il garbo di Massimo De Luca hanno accompagnato le domeniche sportive di generazioni di radioascoltatori e telespettatori italiani. Da alcuni anni De Luca si dedica al teatro: il suo spettacolo ‘Posso battere Kennedy a golf aprirà venerdì la programmazione teatrale della tredicesima edizione del LongLake Festival di Lugano.

E già il titolo lascia intuire un intreccio tra sport e politica.

Lo sport non è mai soltanto sport, un’isola felice staccata dalla realtà, ma è anche uno strumento utile a comprendere il mondo. E infatti si può comprendere il modo di essere di certe nazioni anche dalla prevalenza di questo o quello sport: è più facile capire gli Stati Uniti conoscendo il baseball, e non a caso Don DeLillo e Philip Roth ne hanno scritto, perché è un’espressione del modo culturale del loro Paese. Sport e società non si possono dividere.

Quindi la passione per l’hockey su ghiaccio ci dice qualcosa sulla Svizzera?

Certamente. Parliamo di uno sport fisico, molto veloce, non a caso da praticarsi al chiuso, visto che l’inverno svizzero, specie in certi cantoni, è decisamente rigido. Anche per questo secondo me è nata la tradizione orologiera. L’impossibilità a La Chaux-de-Fonds di uscire di casa per via della neve portava a stare ore e ore su una rotellina a migliorare l’ingranaggio.

L’Italia invece non si può capire senza conoscere il calcio. Silvio Berlusconi entrò in politica, anzi “discese in campo”, con un partito che deve il nome a un coro da stadio, e sfruttò i successi calcistici per sostenere il consenso politico.

Non dimentichiamo però che il suo ingresso nello sport precede di alcuni anni la discesa in campo. Certamente le vittorie del Milan gli facevano comodo perché servivano a costruire l’immagine dell’uomo politico vincente e affidabile, ma non credo proprio che sia stato per il Milan che nel 1994, costruendo un partito in pochi mesi, Berlusconi vinse le elezioni. Dovremmo piuttosto considerare le macerie lasciate da Mani Pulite e la scomparsa di tutti i partiti tradizionali tranne uno, sul quale non si era praticamente indagato se non marginalmente, per cui tutti gli ambienti che non volevano rassegnarsi a una vittoria della sinistra alla fine si ritrovarono lì.

Nel suo spettacolo ripercorre alcuni episodi della storia del Novecento e i loro poco conosciuti addentellati sportivi. Come mai ha scelto la forma del racconto teatrale?

Ho iniziato raccontando le vicende di Niccolò Carosio, che in Italia è il fondatore del nostro mestiere di radiotelecronisti. La sua è una storia abbastanza particolare, che attraversa 40 anni di vita italiana, dal fascismo agli anni 70. Siccome questo tentativo è stato apprezzato, ho proseguito mettendo insieme un po’ di storie che avevo iniziato a conoscere da giornalista. Ne è venuto fuori questo Posso battere Kennedy a golf, che prende spunto da una delle storie principali in cui si articola la narrazione.

Ce la racconti.

È una frase pronunciata da Fidel Castro, a quanto pare molto infastidito dall’immagine glamour di John Fitzgerald Kennedy in tenuta da golf. Siccome dopo l’invasione della baia dei Porci i rapporti tra i due erano molto tesi, il Líder Máximo dichiarò che avrebbe potuto batterlo, cosa impossibile perché Kennedy era un eccellente giocatore, mentre lui non ne sapeva niente. E allora si fece immortalare mentre giocava a golf con Che Guevara al Colinas de Villareal, che di lì a poco avrebbe fatto chiudere. L’autore degli scatti fu Alberto Korda, il fotografo del regime, a cui dobbiamo il ritratto del Che finito su miliardi di magliette, bandiere e striscioni in tutto il mondo. Da notare che anche in quell’occasione Castro indossava la consueta tenuta da guerrigliero.

Un grande golfista americano, Jimmy Demaret, ha detto che il golf e il sesso sono le uniche attività che ci si può godere anche senza esserne molto pratici.

Già, ma il golf è una splendida ossessione che puoi praticare fino a un’età avanzata puntando sempre a un miglioramento, perché dipende tutto e solo da te: la palla è ferma e il bastone l’hai tu. Nel tennis se l’avversario la tira più forte non la prenderai mai, mentre nel golf siete tu, la palla e il campo. Conosciamo esistenzialmente un peggior nemico di noi stessi dal punto di vista mentale?

E allora parliamo di tennis. Il suo spettacolo rievoca anche il clima ideologicamente pesante in cui la nazionale italiana vinse la sua prima e unica Coppa Davis, nel 1976, contro il Cile di Pinochet.

È una storia abbastanza conosciuta, ma su cui innesto qualche piccolo retroscena ulteriore che nessuno ricorda di più e che io ho vissuto da giornalista. Qualche mese prima, nell’autunno del 1975, la Lazio venne sorteggiata in Coppa Uefa contro il Barcellona di Cruijff e Neeskens. Proprio in quei giorni il regime di Francisco Franco condannò a morte degli anarchici. A nulla valsero le pressioni internazionali e l’intervento del Papa, se non a evitare la garrota in favore della fucilazione. A quel punto intervenne la Cgil, minacciando lo sciopero del personale dello stadio nel caso in cui le autorità calcistiche italiane avessero autorizzato lo svolgimento della gara di andata in Italia. La Lazio perse l’incontro a tavolino ma, per evitare ulteriori sanzioni, fu costretta a giocare il ritorno. Partii anch’io, come inviato per il Giornale d’Italia. Ma i catalani erano offesi: ma come, ci dicevano, avete preso per franchisti proprio noi, che piangiamo migliaia di morti per colpa dei franchisti? E a questo punto dello spettacolo mi domando: se la finale di Davis contro il Cile si fosse dovuta disputare a Roma anziché a Santiago, si sarebbe giocata? Ricordiamo che in Italia vivevamo nella cappa degli anni di piombo.

Quella del nazismo invece condizionò la vita del barone Gottfried von Cramm.

Una storia bellissima e amarissima. Lui fu il più grande tennista tedesco prima di Boris Becker. Un fuoriclasse vero, che vinse più volte il Roland Garros e fu finalista a Wimbledon. Omosessuale e amante di un ebreo, ebbe rapporti difficili col regime nazista, che lo arrestò e condannò ai lavori forzati. In sua difesa si mosse personalmente il re Gustavo di Svezia, che consegnò una lettera nelle mani di Hitler. Liberato dopo pochi mesi, von Cramm nel 1937 si vide proibire la partecipazione a Wimbledon dal comitato organizzatore, composto in gran parte da esponenti dell’aristocrazia inglese dalle dichiarate simpatie naziste, che lo rifiutarono in quanto pregiudicato per via dell’infame condanna che aveva subito. E poi c’è la storia della partita di pallanuoto tra Ungheria e Urss alle Olimpiadi di Melbourne del 1956, un anno dopo che i carri armati sovietici avevano stritolato la rivoluzione ungherese. Fu un incontro talmente violento da passare alla storia come “il bagno di sangue”. Il giocatore il cui sangue colorò l’acqua della piscina non sarebbe più tornato in Ungheria: emigrato negli Usa, si mise a fare l’istruttore di nuoto. Un giorno il padre di un bambino molto dotato gli presentò il figlio, chiedendogli di occuparsene. Quel bambino era Mark Spitz.

Un altro intreccio pericoloso tra sport e politica si consumò in occasione dei Mondiali di calcio del 1978, organizzati dall’Argentina di Videla. Disse Berti Vogts, il capitano della Germania Ovest: “L’Argentina è un paese dove regna l’ordine. Io non ho visto nessun prigioniero politico”.

In Argentina ero andato anch’io, a seguire la rassegna per Radio Rai. Parlandone con grande onestà, devo dirle che ero giovane, avevo 28 anni ed erano i miei primi Mondiali. Per carità, sapevamo dove eravamo, ma non avemmo una grande percezione della tragedia sottostante. E poi era tutto molto controllato. Mi rimprovero di non essere andato più a fondo in quell’occasione, ma mi sarebbe servita probabilmente un po’ più di esperienza.

Stiamo parlando di sport parlando d’altro: è l’insegnamento del suo maestro Sergio Zavoli.

Ed è lo spirito che innerva il mio spettacolo. Le storie principali sono quattro, simbolizzate da quattro microfoni di epoche diverse a seconda del periodo che si racconta, però all’interno di quelle storie c’è un effetto matrjoska, perché ne apri una e ne trovi un’altra e così via, in un gioco di rimandi. Questo mi permette di chiudere tornando su Kennedy, che di ritorno dal famoso viaggio a Berlino, in cui aveva pronunciato la frase «Ich bin ein Berliner», decise di farsi girare un film in 8 mm dal fotografo della Casa Bianca per sottoporre l’immagine del suo swing, cioè del suo modo di colpire la pallina, al più grande golfista dell’epoca, Arnold Palmer. Costui era repubblicano e amico di Eisenhower, a sua volta grande appassionato di golf, ma siccome in America il presidente è il presidente da qualsiasi parte provenga, dovette accettare l’invito, che gli fu fissato alla Casa Bianca il giorno dopo il previsto ritorno di Kennedy da Dallas. Ma sappiamo come andò a finire, e infatti esco di scena con una sacca da golf dell’epoca mentre partono le immagini di Walter Cronkite che si commuove annunciando in tv la morte di Kennedy.

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