L'analisi

Cina e Trump, l’Europa rischia

L'accordo tra Usa e Pechino per fermare la guerra commerciale è una brutta notizia per il vecchio continente, dopo quella delle sanzioni anti-iraniane

Il gigante della telefonia cinese Zte (foto Keystone)
22 maggio 2018
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“Sarebbero troppi i disoccupati persino per la Cina”. In un primo momento gli osservatori si sono stropicciati gli occhi leggendo l’ennesimo ‘cinguettio’ dell’inquilino della Casa Bianca, twitter-maniaco compulsivo.

Donald Trump, il ‘Robin Hood’ della guerra contro le disoneste pratiche di Pechino, si era forse commosso all’idea di provocare una massiccia dose di licenziamenti nel conflitto che oppone Washington a Zte, il gigante della telefonia cinese, accusato di accordi “impropri” con l’Iran assoggettato a nuove sanzioni economiche statunitensi? In realtà si è capito in fretta che quel messaggio preannunciava l’accordo fra i due Paesi, sottoscritto nel weekend, per bloccare la spirale che stava portando ad una pericolosa e reciproca guerra commerciale. Che dunque, almeno per il momento, non ci sarà.

In realtà, benché sostanzialmente favorevole alle richieste di Trump, l’intesa non è priva di incognite e ambiguità: è vero che la Cina si impegna a ridurre il disavanzo americano, che l’anno scorso è stato di ben 375 miliardi di dollari, ma non viene precisato entro quale scadenza (si era inizialmente parlato del 2020) e nemmeno in quale misura (non viene citata la riduzione di 200 miliardi l’anno, reclamata a gran voce dal presidente americano).

L’economia del gigante asiatico ha una serie di vulnerabilità dagli sviluppi imprevedibili, ed è ancora incapace di garantire grandi quantità di nuove importazioni; e sull’altro fronte c’è ancora de vedere se e quando la produzione statunitense sarà in grado di aumentare la sua produzione per duemila milioni annui. Sull’accordo pesa inoltre il sospetto che esso si intrecci con la crisi nord-coreana: Trump ritiene che lo storico vertice con Kim Jong-un sia oggi una priorità assoluta della sua politica internazionale (anche se le ultime precisazioni di Pyongyang contro la denuclearizzazione della penisola aprono molti interrogativi), e i consiglieri del capo della casa Bianca sanno benissimo che è la volontà di Pechino a determinare o meno il successo dell’iniziativa diplomatica così cara a ‘The Don’.

La notizia dell’accordo – che dovrebbe essere accolto con un sospiro di sollievo da chi ritiene che una vampata di protezionismo faccia piombare l’economia internazionale in uno scenario non molto dissimile dalla situazione che provocò la grande crisi degli anni Trenta – in realtà è un’altra brutta notizia per l’Europa, dopo quella delle sanzioni anti-iraniane che colpiscono gli esportatori del vecchio continente. Per mantenere l’impegno verso gli Usa, la Cina dovrebbe aprire le sue frontiere ai prodotti statunitensi diminuendo l’arrivo di quelli europei.

Ecco perché da questa parte dell’Atlantico ci sono state reazioni preoccupate. Anzi, decisamente polemiche. Come quella del ministro francese dell’Economia, Bruno Le Maire: “Washington vuol far pagare all’Europa il comportamento della Cina; ed è la prova che Pechino e Washington rischiano di accordarsi sulle spalle dell’Europa se quest’ultima non fosse capace di mostrare la sua fermezza”.

E ancora una volta questa Europa, schiacciata nella tenaglia delle grandi potenze, deve prendere atto della sua debolezza politica, e proprio nel momento in cui torna prepotente il timore dell’assalto populista. Indifferente, quest’ultimo, a una geopolitica che brutalmente la pone di fronte al prevedibile dilemma: se cercare di essere indipendenti, o vassalli.

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