L'analisi

Ieri l’Afghanistan Oggi la Siria

7 ottobre 2015
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Sono in molti a ritenere (e ad apprezzare) che la Russia, con la sua prima guerra combattuta al di fuori dello spazio ex sovietico, stia facendo in Siria il “lavoro” che altri non hanno saputo, o voluto fare. Il fatto è che quando un “lavoro” è sporco lo è anche se fatto per conto terzi. E tale è appunto quello di cui si è incaricato Putin, contando, naturalmente, su un proprio tornaconto. Ordinando i raid sulle postazioni dello Stato islamico (rivelatisi piuttosto attacchi alle opposizioni siriane) il presidente russo ha sfruttato una falla strategica evidentissima e un momento particolarmente propizio. Il vuoto strategico è determinato dalla confusione e dalla debolezza europee e soprattutto dal disimpegno statunitense; l’occasione propizia è invece assicurata dalla pressione migratoria alle frontiere d’Europa, a cui la componente di profughi in fuga dalla Siria ha aggiunto dimensioni straordinarie e un ulteriore tragico significato. Tanto che quando Putin si è proposto come il solo capace di “fermare l’Isis” e di conseguenza la guerra e di conseguenza (soprattutto) l’esodo dei siriani oltre il Bosforo, molti dei governi, dei commentatori e delle opinione pubbliche che pure lo considera(va)no un detestabile autocrate hanno scommesso su un suo successo. Disposti anche a ingoiare il rospo di un Assad saldo su un trono di macerie e cadaveri. Che poi le contraddizioni di questo scenario non esplodano provocando danni maggiori è niente affatto certo. L’incidente sfiorato tra gli F16 inviati da Ankara ad allontanare il caccia russo che aveva violato “per errore” lo spazio aereo turco; e, 24 ore dopo, la mira presa da un Mig russo su due caccia turchi, sono forse episodi marginali, e tuttavia spie certe di come la tensione, in questo caso con un attore “esterno” come la Nato, può facilmente detonare in conflitto. Quale che ne sarà l’esito finale, è probabile che l’intervento di Mosca produca nell’immediato una escalation del caos, una accresciuta fuga dalla regione, un effetto-calamita per gli aspiranti jihadisti, e la radicalizzazione dello scontro tra il campo sunnita e quello sciita – ciò in cui hanno trasformato la guerra civile siriana gli appetiti di troppi competitori regionali. Il fronte sciita è ispirato e guidato da un Iran quasi liberato dalle pastoie delle sanzioni internazionali, e che ha fatto della difesa del regime alawita di Assad (confessione peraltro minoritaria in Siria) il perno della sua ambizione egemonica, dopo aver testato in Iraq le modalità di imposizione e mantenimento di un regime (sciita) vassallo. La Russia è in questo momento il suo alleato “naturale”. Il campo sunnita, al fianco del quale Obama ha svogliatamente avviato una bislacca campagna aerea anti-Isis e attraverso il quale vuole schierare un contingente di terra, riassume gli opposti che solo il Medio Oriente sa esprimere. Trovarsi accanto ai sauditi nella guerra all’Isis, come pare vogliano fare molti zelanti alleati di Washington, dovrebbe quantomeno generare imbarazzo: tagliatori di teste i primi, tagliatori di teste i secondi, ma questi “barbari”; ispiratori e finanziatori del wahabismo più oscurantista i primi, zeloti della stessa sharia i secondi, ma questi “fanatici”. L’Occidente vuole continuare a essere il loro “innaturale” alleato? E infine vale per Putin ciò che vale per tutti i Napoleoni della storia: le guerre si sa come iniziano ma non come finiscono. E se questa può apparire una banalità, varrà la pena ricordare che l’ultima avventura bellica dell’Armata rossa si concluse con una ritirata non meno umiliante di quella americana dal Vietnam. Era l’Afghanistan, calamita e vivaio dell’internazionale jihadista che dalle montagne di quel paese irradiò la guerra santa ben oltre il braciere regionale. E quando i mujaheddin furono battuti, comparvero i taleban. Se dunque una lezione possiamo trarne è che anche l’Isis verrà battuto, ma non cancellato; e che le sue schegge verranno proiettate ovunque. Questa guerra non finirà presto.

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