La trave nell'occhio

Addio alle urne?

A tirar le somme, si deve pure ammettere che, qua e là, il principio della stupidità funzionale teorizzato in politica ha un terreno assai fecondo

In sintesi:
  • Le elezioni sono passate: lo spettacolo offerto non è stato dei migliori e la forma ha ricalcato i contenuti
  • Il dato più clamoroso: sette cittadini su dieci rifiutano i partiti e optano per l’astensionismo o per la scheda non intestata
  • La domanda corretta che ci si deve porre non è tanto perché la gente non vota, ma perché continua a votare ‘questi’ partiti.
(Ti-Press)

Ci sono state le elezioni cantonali e sono passate. In quei giorni un profluvio di manifesti e tante facce desiderose di servire il bene comune hanno invaso le nostre contrade: ora, qua e là, resta qualche brandello sgualcito a ricordarci che le chiacchiere sono state tante ma la sostanza poca. Carlo Cassola, quello del ‘Gigante cieco’, riteneva che in politica le apparenze contano: concordo. Infatti lo spettacolo offerto non è stato dei migliori e la forma ha ricalcato i contenuti.

La politica è una cosa seria, molto seria, e bisognerebbe che lo capissero tutti, a cominciare da certe trasmissioni radiotelevisive che la intendono come gioviale intrattenimento e sollazzo da avanspettacolo, all’insegna del tutoyer che fa compagnoni. Tanti candidati alle poltrone si sono prestati alla sconfortante esibizione: l’audience, si sa, può portare qualche voto in più. A tirar le somme, si deve pure ammettere che, qua e là, il principio della stupidità funzionale teorizzato in politica ha un terreno assai fecondo.

I filosofi della politica raccomandano un minimo di “distanza democratica” per il buon funzionamento della democrazia, ma non godono di molta popolarità: vale la “disintermediazione” di tutto, anche del buon gusto. È questo uno degli effetti perniciosi della personalizzazione della politica in cui conta apparire più che essere.

Non mi avventuro nei giudizi sugli esiti elettorali di queste ultime cantonali. Azzardo solo poche sommarie e personalissime impressioni. La Lega paga l’ambiguità di chi il potere lo occupa ma lo contesta: difficile essere partito e movimento; il partito liberale è diventato un partito liberista, e nessuno ha spiegato agli interessati la pericolosa incompatibilità fra i due aggettivi, dove il secondo contraddice l’essenza del primo; i socialisti, al netto delle diatribe personali, hanno perpetuato il vezzo delle “parole di nebbia” che privilegiano una certa astrazione concettuale ed evitano di affrontare di petto, con la dovuta crudezza, i problemi che la gente comune sente come prioritari (a loro segnalo un recente libro di Luca Ricolfi, Le mutazioni, Milano, 2022: ci spiega perché le idee di sinistra sono migrate a destra); i verdi pagano la congiuntura sfavorevole e l’ignavia degli umani: l’ambiente va a rotoli ma passa in secondo piano quando di mezzo c’è un pezzetto del nostro benessere materiale; i centristi frenano il declino perché retribuiti da qualche bersaglio ben centrato; le destre, beh, il vento sovranista soffia impetuoso e la distinzione fra Noi e Loro va alla grande. La frammentazione, di cui tanto si dice, rispecchia il disorientamento dei partiti tradizionali e le domande inevase a cui non sanno dare risposte vere: cercare di risolvere il problema con la soglia di sbarramento è una sciocchezza possibilmente da evitare; non si pulisce la casa buttando la polvere sotto il tappeto.

Astensionismo e scheda non intestata, indici di sfiducia

Accanto a queste scarne premesse, segnalo il dato più clamoroso, avvertito ma discusso alla chetichella: sette cittadini su dieci rifiutano i partiti e optano per l’astensionismo o per la scheda non intestata. È un definitivo indice di sfiducia nei confronti dei partiti tradizionali e della democrazia rappresentativa. Non è un ripudio assoluto dei partiti, ma di “questi” partiti: spostati verso la gestione delle risorse dello Stato, hanno smarrito i legami con la società e hanno perso qualsiasi legittimazione come rappresentanti affidabili delle domande dei cittadini. Il fossato con la società è diventato una voragine.

La disaffezione nei confronti della rappresentanza eletta ha riportato d’attualità, e non è un caso, l’antica pratica del sorteggio. Dicono i fautori: il sorteggio sottrae i prescelti dall’influenza dei partiti e garantisce l’imparzialità. Rispondono i detrattori: il sorteggio non considera il merito. Replicano i fautori: perché le elezioni privilegiano forse il merito? Non è forse dimostrato che le logiche elettoralistiche non promuovono necessariamente il governo dei migliori e dei competenti, ma piuttosto chi sa destreggiarsi nell’apparire più che nell’essere? È un ottimo argomento di dibattito, ma una cosa è sicura: la rivendicazione di formule alternative altro non è che il tentativo di compensare il deficit di rappresentatività dei partiti e di ridare credibilità al sistema.

E allora forse la domanda corretta che ci si deve porre non è tanto perché la gente non vota, ma perché la gente continua a votare “questi” partiti. Dal filosofo Francis Dupuis-Déri (Addio alle urne, Eleuthera, Milano, 2019) giunge una precisazione: l’astensionismo continua a essere biasimato e denigrato, ridotto a semplice prodotto dell’indifferenza rassegnata o dell’incompetenza, e in realtà si va sempre più affermando come pratica politica consapevole.

L'altra strada della politica

In genere quando si parla di astensionismo lo si associa al cittadino apatico, passivo, disinteressato. Era vero, per una serie di ragioni, lo scorso secolo: spesso coloro che non votavano erano i socialmente emarginati, i meno interessati alla politica, con livelli di conoscenza piuttosto bassi. Il panorama cambia radicalmente nel XXI: oggi siamo confrontati con un astensionismo di protesta che palesa una sfiducia totale nella funzione parlamentare e va di pari passo con la disaffezione nei confronti della democrazia rappresentativa. Molti fra quelli che si astengono hanno un’alta conoscenza del ruolo della politica ma ritengono che i partiti non siano più in grado di assolvere il loro mandato. Si tratta di una percezione che ha un fondamento perché il partito oggi ha finalità eminentemente elettoralistiche: l’intento è riprodurre sé stesso e il rapporto con i cittadini è cercato quando servono i voti. Ed ecco allora che l’interesse per la politica non svanisce ma prende altre vie e assistiamo al fiorire dell’associazionismo, del volontariato, delle proteste di piazza. È l’altra strada della politica. E i partiti? Ci vogliono, sono inevitabili ed è difficile pensare a una democrazia senza partiti. Ma debbono cambiare se non vogliono autoaffondarsi.

E allora che fare? Forse vale la pena di seguire il consiglio di Noam Chomsky: andiamo a votare e cerchiamo di optare per il male minore ma allo stesso tempo facciamo sentire la nostra presenza nelle associazioni varie e non dimentichiamo, quando occorre, di scendere nelle strade per reclamare un po’ più di dignità per le persone, di giustizia sociale e ambientale.

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