laR+ IL COMMENTO

Peccato che Ermotti si chiami Sergio e non Salvatore

Ubs amministrerà 5'000 miliardi di dollari e disporrà di oltre 120mila dipendenti, il 30% dei quali dovrebbe perdere il posto di lavoro

In sintesi:
  • La sua sarà un'impresa da Sisifo
  • L'assemblea dell'Ubs è filata liscia, quella di Credit Suisse sembrava un funerale
Sergio Ermotti, nuovo-vecchio Ceo di Ubs
(Keystone)
8 aprile 2023
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Dopo che è entrato in carica il nuovo Ceo dell’Ubs allargata, Sergio Ermotti, e visto che siamo alla vigilia di Pasqua, nessuno si permette di negargli le stimmate del Salvatore. A questo punto non solo del colosso bancario in gestazione ma, addirittura, dell’intera piazza finanziaria. Insomma la sua, come è emerso ben chiaro mercoledì scorso a Basilea dall’assemblea degli azionisti di una Ubs ancora in ottima salute, sarà un’impresa da Sisifo. “Ci aspetta un compito erculeo”, hanno non a caso dichiarato durante i lavori diversi esponenti del board di quella che è già la prima banca svizzera e che, a integrazione con Credit Suisse compiuta, lo sarà ancora di più. Basti pensare che amministrerà 5mila miliardi di dollari di capitale in gestione e disporrà di oltre 120mila dipendenti. Il 30% dei quali, stando alla SonntagsZeitung, dovrebbe perdere il posto quando l’integrazione sarà completata. Dati sui tagli del personale non sono stati comunicati durante l’assemblea. Anzi, il vice-presidente di Ubs Lukas Gähwiler ha addirittura dichiarato che “l’integrazione delle due banche, nel breve termine, richiederà un numero maggiore di persone”. Nel frattempo i migliori di Credit Suisse vengono corteggiati da altri istituti e, di fronte a un futuro incerto, in molti se ne vanno.

Se l’assemblea degli azionisti di Ubs è, tutto sommato, filata via liscia, quella di Credit Suisse, svoltasi martedì a Zurigo, ha avuto le sembianze di un funerale sui generis visto che i dolenti non si sono presentati con il ciglio umido, come di solito capita alle esequie, bensì infuriati con il caro estinto, praticamente defunto domenica 19 marzo, dopo una fulminea agonia di quattro giorni. Un’agonia, è bene ricordarlo, innescata dal rifiuto del principale azionista, Saudi National Bank, di investire ulteriori capitali nella banca con l’acqua alla gola e con la clientela in fuga, a suon di miliardi che evaporavano quotidianamente. Un tracollo, quello di Credit Suisse, che rimarrà impresso nella memoria di questo Paese, come altre vicende assolutamente non commendevoli, succedutesi durante i suoi oltre sette secoli di storia.

“Siamo stati travolti da una valanga”, ha ammesso il presidente del Cda Axel Lehmann. Una valanga che tuttavia, come ha esordito Guido Röthlisberger, il primo degli azionisti intervenuti, non si è ancora capito perché non sia stato possibile prevedere. “Mi sento una merda”, ha tuonato, per poi chiedere ai vertici della banca quanto si siano intascati la Finma o PricewaterhouseCoopers per svolgere la loro missione di controllo. In realtà la domanda di Röthlisberger è quella che si fanno tutti, ormai da poco più di due settimane, visto che ancora una volta il controllore è stato carente e, ogni volta, vien da chiedersi se non ci voglia qualcun altro che lo controlli. O, meglio ancora, a cosa servano le società di revisione, pubbliche o private che siano.

Mercoledì, intanto, ha detto la sua anche il Consiglio federale, annunciando l’intenzione di bloccare i bonus del migliaio di dirigenti di Credit Suisse. È lo stesso governo, giova ricordarlo, che ancora non ha dato seguito all’iniziativa Minder ‘contro le retribuzioni abusive dei manager’. Lo stesso Minder che in questi giorni ha dichiarato: “La banca andava lasciata fallire, è inaccettabile che il Consiglio di amministrazione la faccia franca”.

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