Commento

Un forte vento di ribellione

Hong Kong (Keystone)
11 novembre 2019
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La globalizzazione atto II l’ha battezzata il politologo Bertrand Badie. È quella che si traduce nell’ondata di proteste e ribellioni che scuotono Paesi su scala mondiale. Milioni di persone che si riversano nelle strade di Hong Kong, Caracas, Santiago del Cile, Quito, Managua, Barcellona, Parigi, Beirut, Khartum in Sudan, o Bassora in Iraq. Stiamo di fatto assistendo a una sorta di primavera araba a dimensione planetaria facilitata da quell’enorme cassa di risonanza costituita dai “social”. Globalizzazione atto II in quanto, secondo il politologo francese, siamo di fronte a un ribaltamento del paradigma della prima mondializzazione che vedeva nella liberalizzazione economica la premessa per il progresso sociale. Così non è stato: malgrado alcuni importanti benefici (come la riduzione della povertà estrema nel mondo), il crollo delle frontiere economiche ha portato a un aumento delle disuguaglianze sociali, a un’instabilità e a un’incertezza che colpiscono in particolare le giovani generazioni. Quelle che in Iraq ad esempio rappresentano i due terzi della popolazione: sono le stesse che a rischio della propria vita scendono nelle strade per denunciare le élite corrotte al governo dal 2003. Il caso iracheno è molto significativo, perché a contestare il regime sciita sono gli sciiti stessi. Sciiti che denunciano i loro dirigenti: come dire che la componente sociale ha travolto quella tradizionale comunitarista. Certo, come evidenziato da un interessante dossier pubblicato qualche giorno fa da ‘Le Monde’, non è sempre possibile stanare un filo rosso, una logica tra le diverse situazioni. Cosa accomuna il movimento ormai esauritosi dei “Gilets jaunes” espressione del malessere nelle zone periurbane francesi, i manifestanti che ad Hong Kong tengono in scacco le forze dell’ordine da 22 settimane, quelli che ad Algeri sfidano il regime da 32 settimane, la massa di catalani riversatasi nelle strade di Barcellona e quella dei libanesi che a Beirut fa risorgere lo spettro della guerra civile che ha devastato il Paese dal 1975 al 1990? Maria Stephan, del U.S. Institut of Peace ci fornisce una risposta convincente, seppur con tutti i distinguo legati alle specificità che innescano la protesta locale: per lei il comune denominatore è la sfiducia nelle élite, impegnate ad occuparsi più di sé stesse che del bene comune, la corruzione, il senso di abbandono e il precariato. I detonatori sono spesso simili. In Libano è l’introduzione di una tassa su WhatsApp ad aver scatenato la rivolta. Un dettaglio? No, perché la comunicazione online è per molti l’unica alternativa alle tariffe esorbitanti imposte dalle due compagnie di telecomunicazione immanicate con il governo. Il Paese ha il terzo debito pubblico più elevato al mondo, debito in mano alle banche private, che hanno imposto tassi di interesse elevatissimi. In Sudan si è scesi nelle strade dopo l’annuncio dell’aumento del prezzo del pane. In Cile sullo sfondo del crollo delle quotazioni del rame, la scintilla è stata l’aumento delle tariffe della metropolitana. Ma a Santiago come altrove la protesta tende a non fermarsi alle rivendicazioni economiche puntuali, tracima e va in realtà a colpire il cuore delle istituzioni, costringendo il presidente Piñera ad accettare la modifica della Costituzione. A Khartum la folla chiede ora l’incriminazione dell’ex dittatore Omar al-Bashir. L’onda lunga di Occupy Wall Street e di piazza Tahir al Cairo (2011), passando da piazza Maidan a Kiev (2014) continua, si amplia, portando un vento di ribellione, su un sottofondo a volte cacofonico ma che nell’insieme esprime insoddisfazione e indignazione per modelli economico-politici che favoriscono unicamente le élite.

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