Commento

L’odio al governo

L’ideologia negativa espressa da Trump, incapace di produrre un progetto che vada oltre lo slogan, si risolve nell’evocare un nemico

7 agosto 2019
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La differenza tra il norvegese Anders Breivik e gli autori delle ultime stragi negli Stati Uniti non è che il primo (vado all’ingrosso) compì nel 2011 un bagno di sangue per denunciare l’invasione islamica dell’Europa, mentre l’assassino di El Paso intendeva “opporsi” alla “invasione” ispanica degli Stati Uniti. No. La differenza è che Breivik parlava, politicamente, una lingua opposta a quella del governo del suo Paese, mentre il vocabolario del secondo è lo stesso utilizzato dal suo presidente.
È una differenza cruciale, la conferma sanguinante del mutamento che si è prodotto, o è in via di compiersi definitivamente nelle nostre società, dove la norma etica che cercava di comporre i conflitti secondo un minimo interesse comune è stata sostituita da un discorso identitario aggressivo e pervasivo. Un discorso che non ispira più soltanto politici e movimenti confinati nei recinti ideologici che in qualche misura consentivano di far decantare rabbie e frustrazioni collettive, ma che è stato fatto proprio da chi detiene il potere – da Budapest a Varsavia Roma Washington – e per mantenerlo lo fomenta e se ne alimenta.

È persino banale, per stare agli ultimi episodi, osservare che non è stato Donald Trump a “premere il grilletto” a El Paso, e che le stragi negli Stati Uniti sono moneta corrente, chiunque risieda alla Casa Bianca. Troppo banale per non destare il sospetto della malafede. Se si censiscono le sparatorie di massa degli ultimi anni si vedrà che quelle “politicamente motivate” sono state nella stragrande maggioranza opera di nazionalisti, o suprematisti, o comunque gente ispirata alle teorie dell’estrema destra. Ma, di nuovo, con una differenza a fare da spartiacque: “contro” Barack Obama finché fu presidente; e in seguito in sintonia con il discorso del nuovo capo dello Stato. A chi, se non a Trump, va infatti chiesto conto se le parole scaricate da Patrick Crusius nella cloaca di Facebook prima della strage ricalcano quelle che da anni risuonano nei suoi comizi: “invasione, invasione, invasione”?
Si rivedano le immagini di un discorso tenuto nel maggio scorso in Florida dal presidente: “È una invasione – gridava osannato dai suoi fan rigorosamente bianchi –, non possiamo sparargli, ma come fermarli?”. Quando dal pubblico qualcuno gridò “sparagli!”, Trump sorrise: “Non qui”. Ed è solo un episodio degli innumerevoli che costellano il curriculum presidenziale, e che ne sono di fatto il contenuto esclusivo.

Questo è il punto: l’ideologia negativa espressa da Trump, incapace di produrre un progetto che vada oltre lo slogan, si risolve nell’evocare un nemico. E il migrante ne è divenuto l’immagine. In altri tempi furono gli ebrei, gli zingari…
Il fatto è che Trump non è solo. Vi sono, è vero, peculiarità che fanno degli Stati Uniti una terra di pistoleri, e c’è un Atlantico di mezzo, ma occorre un certo sforzo per non riconoscere l’identità quasi perfetta tra linguaggio e prassi del presidente statunitense e quelle dei politici che in Europa dettano la propria legge in sempre più Paesi. Seminatori di odio, mietitori di consensi. Il grilletto non lo premono loro, già occupati a contare i voti.

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