Commento

I numeri (magici) della riforma fiscale

Le cifre del pacchetto bis esprimono un modo di concepire la politica economica, da parte del governo, che va decifrato ed esplicitato. E se cambiassero ricetta?

La 'bacchetta' della fiscalità è nelle sue mani (Ti-Press)
30 luglio 2019
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I numeri della riforma fiscale cantonale non convincono. Da quando è stato presentato il messaggio del Consiglio di Stato sono emerse molte riserve e critiche, sia da destra che da sinistra. Le cifre divulgate dal governo esprimono, in particolare, un modo di concepire la politica economica che va decifrato ed esplicitato; l’analisi a bocce ferme di alcuni dati del pacchetto bis è dunque doverosa.

Andiamo con ordine: attualmente il gettito complessivo delle persone giuridiche in Ticino ammonta a circa 340 milioni di franchi. Di questi, è noto da tempo, una novantina provengono dalle imprese finora assoggettate secondo il regime recentemente abolito delle società a statuto speciale. Lo scopo dichiarato della manovra è pertanto quello di evitare di perdere il gettito che oggi arriva da queste aziende a tassazione privilegiata. Imprese che, per la loro natura transnazionale e il loro legame piuttosto debole (per usare un eufemismo) col territorio, potrebbero facilmente spostarsi in altri cantoni fiscalmente più vantaggiosi. Durante la presentazione della riforma il ‘ministro’ Vitta ha insinuato che la riduzione dell’imposta sull’utile delle persone giuridiche mira anche a preservare il gettito delle piccole e medie imprese (Pmi) visto che potrebbero essere, anche loro, tentate di lasciare il Ticino per risparmiare qualche punto di aliquota impositiva. A confutare questa seconda ipotesi, d’altronde poco plausibile, vale in ogni caso quanto affermato su queste colonne in più occasioni: l’esca migliore per trattenere le Pmi sul territorio non sembra essere la riduzione dell’aliquota. E non perché le lobby delle principali imprese di capitale prevalentemente locale non la vogliano (anzi, possiamo essere certi che la trentina di famiglie ticinesi alla testa di queste ditte è tra i primi a spingere la riforma tramite il relativo partito politico di appartenenza). Le Pmi ottengono una buona parte del loro profitto grazie alla capacità di consumo del mercato interno, motivo per cui uno stimolo alla domanda aggregata attraverso una maggior spesa pubblica avrebbe sicuramente delle ripercussioni molto più positive rispetto agli sgravi fiscali, tanto per l’élite economica ticinese quanto per i settori del ceto medio e basso.

Ma torniamo alle società a statuto speciale, quelle ‘da salvare’. Per raggiungere l’obiettivo di trattenerle in Ticino la manovra fiscale prevede, a partire dal 2025, una riduzione di quasi il 40% dell’imposta sull’utile di tutte le persone giuridiche, più altri 4 punti percentuali a favore delle aziende per via del taglio al moltiplicatore cantonale d’imposta. In soldoni tutto questo vuol dire un investimento pubblico di 105 milioni per provare a conservare un gettito di 90. I conti non tornano. Così facendo il temuto ‘non fare nulla’, pur nello scenario peggiore (quello in cui tutte le aziende a statuto speciale lasciano il Ticino), costerebbe comunque meno al fisco rispetto al quasi dimezzamento dell’imposta sull’utile delle imprese; considerando inoltre che l’esodo delle società a statuto speciale non può essere neanche escluso del tutto con un’aliquota al 5,5%. La domanda che s’impone allora è: perché lo si fa?

Gli economisti di stampo neoliberale sono abituati a nascondere dietro cifre e grafici, a priori incomprensibili per noi comuni mortali, dei postulati esclusivamente ideologici, condiscendenti con gli interessi che sono chiamati a rappresentare (e che non sono quelli della maggioranza). In Ticino siamo dunque confrontati con l’ennesimo esempio di questo ‘vecchio trucco’. Forse sarebbe ora che a Hogwarts, pardon, che a Harvard cambino ricetta.

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