Commento

L’emozione non ha tempo né prezzo

6 agosto 2016
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Rio 2016 è l’esaltazione dello sport e della sua opulenza. Dell’impresa cercata e forse ottenuta nello scenario più prestigioso, quello dei cinque cerchi olimpici, unico nel suo genere.
È la celebrazione dello sport, fiero della sua enormità, ma anche vittima delle sue esagerazioni e schiavo della sua deriva truffaldina, e delle sue contraddizioni. Combattuto com’è tra la tolleranza zero per chi sgarra – data in pasto con l’immancabile retorica giustizialista alla gente stufa di scorciatoie e di campioni tronfi e gonfi – e la confusione di chi legifera e delibera, travolto dai ricorsi, dalle competenze, dagli “interessi superiori”. Uno sport che a Rio si esibisce ai suoi massimi livelli, e che si batte tra una giustizia che si vuole implacabile e l’arte del compromesso tipica invece della politica, i cui tentacoli muovono l’intero apparato organizzativo dando vita ai burattini che lo gestiscono.
Poco a che spartire, in definitiva, con i valori decubertiani che stanno alla base dei Giochi, ormai utili soltanto alla demagogia di chi si fa abbagliare dal riverbero dell’oro, fingendo che non ci sia anche tanto bronzo. Quello delle facce di troppi degli attori di una recita che al primo posto pone gli atleti, senza riuscire a nascondere tutta la polvere sotto il tappeto.
Su il sipario, via alle Olimpiadi che il Brasile si vide assegnare sull’onda lunga di uno sviluppo che solo pochi anni fa era alla sua massima espressione, ma che nel frattempo, in tempi clamorosamente rapidi, ha lasciato il campo a una crisi economica, sociale e istituzionale che getta ombre sul futuro stesso di un’intera nazione. Di un Paese riassunto nelle sue attuali difficoltà e contraddizioni da Rio de Janeiro, epicentro di una rappresentazione olimpica sfarzosa. In perfetto stile Copacabana, verrebbe da dire. Se non fosse che, dietro il velo di risultati e medaglie, nasconde il volto depresso e fatiscente delle favelas e della miseria, che della Città di Dio restituiscono un’espressione ben più autentica e reale di quanto possa fare l’allegria di Ipanema.
Sullo sfondo resta l’ombra del doping di Stato russo. Restano le tracce dell’incidente diplomatico sfiorato, rientrato in extremis. Resta l’imbarazzo del Comitato olimpico, incapace di fornire una soluzione, pericolosamente fragile.
Per fortuna ci sono Usain Bolt, Michael Phelps, Fabian Cancellara. Campioni che lo sport hanno rivoluzionato, nobilitato, pronti a ritagliarsi porzioni di gloria eterna, da consegnare alla leggenda. Ci sono gli atleti di tutto il mondo, divisi tra chi primeggia, chi quantomeno ci prova e chi, invece, per forza di cose si fregia di una partecipazione che, solo quella, vale un’intera carriera.
Negli occhi e nel cuore della gente, una volta tolto il velo rappresentato da una cerimonia inaugurale meno cara – bontà sua – delle precedenti, resteranno le imprese sportive, i record, le prestazioni. Le gesta degli atleti, ai quali finalmente viene lasciato campo libero, affinché diano un senso a una manifestazione che, nei piani originali di chi i Giochi ideò, dovrebbe essere solo un enorme palcoscenico sul quale misurare abilità e bravura.
Eccolo, un modo valido per onorare quello che resta dell’originale spirito olimpico: farsi contagiare dalla competizione, farsi sorprendere dalla prestazione, emozionarsi di fronte al record, o commuoversi per effetto di una grande delusione. Bene prezioso, l’emozione sì che è oro colato.
Dalla sua ha che non ha tempo, né prezzo. Ha l’autenticità, che le Olimpiadi non hanno più.

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