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In morte d'un combattente

La scomparsa di Silvio Berlusconi dalla scena imprenditoriale e politica segna un passaggio epocale per l’Italia. Spero che ciò possa fornire alle istituzioni e ai cittadini italiani l’occasione per riflettere profondamente sulla necessità di rompere con gli schemi attuali e d’innovare la propria capacità di proiezione sull’avvenire dei propri figli e nipoti. È cruciale il bisogno ch’essa venga ampliata su un periodo lungo almeno due legislature, rifuggendo dalla “campagna elettorale permanente” nella quale si vede sprecare una quantità di preziose energie sociali.
Non intendo esprimere alcuna opinione mia propria su una persona che ho conosciuto, direi “quanto basta”. Prima a Milano nel 1964, quand’era ancora solo un giovane laureato, e venne nell’ufficio di un prelato dei Salesiani con il quale collaboravo. Rimase anche a cena, e lo trovai molto cerimonioso, al limite del servile. Poi nel 1981 in Sardegna, quand’ero alle dipendenze di Karim Aga Khan per la comunicazione. Prospettava grandi cose, ma era tutta una sceneggiata di marketing per le aziende alle quali offriva pubblicità, e nello stesso tempo una competizione insidiosa per gl’interessi immobiliari del mio capo, il quale n’ebbe un’impressione negativa: “Da pirata” disse.
Quando poi è “disceso in campo” nel 1994 ho ammirato la sua formidabile capacità di scompigliatore imprenditoriale e politico in una nazione male amministrata e con una popolazione culturalmente appiattita, minata dalla corruzione in ogni sua attività, socialmente ondivaga e facilmente influenzabile dai media. Ma non gli ho mai dato il mio voto.
Per quel poco che l’ho conosciuto (poi l’ho sempre tenuto d’occhio, e le sue azioni me lo hanno puntualmente confermato), quell’uomo poteva anche pensare sinceramente d’essere un benefattore per l’Italia, alla quale non lesinava pubbliche dichiarazioni d’amore. In realtà, il suo egocentrismo poteva consentirgli d’essere soltanto benefattore di sé stesso o, al massimo, dei tanti che ha beneficiato con grande sfoggio di liberalità, come un principe rinascimentale.
Si dichiarava liberale. Il suo comportamento, però, lo faceva al massimo monarchico, e di se stesso: del genere “l’État c’est moi”.
Quello era il suo stile, e solo di quello ha dato prova d’essere capace. La sua democrazia era quella del “se è buono per me, allora è buono per tutti”. Lo si può esaltare o esecrare. Certo è che l’Italia degli ultimi trent’anni non è stata in grado di produrre di meglio. I commenti che sento e vedo giungere dall’estero me lo confermano. È stato un grande combattente, riposi in pace.

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