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‘Una nuova Nakba. Senza scampo pure chi vive nei campi profughi’

L’attivista palestinese Mira Kurayyem, cresciuta come rifugiata: ‘Il loro scopo non è combattere Hamas ma rimuovere un popolo e prendere la sua terra’

Ricerca di corpi e sopravvissuti tra le macerie del campo profughi di Jabalia, dopo un raid israeliano
(Keystone)
5 dicembre 2023
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Abbiamo intervistato l’attivista palestinese, Mira Kurayyem, cresciuta in un campo profughi, negli ultimi anni ha dato lezioni di storia palestinese a giovani e bambini del campo palestinese di Burj el-Barajneh a Beirut.

Quale è stata la reazione dei palestinesi che vivono dei campi alla notizia degli attacchi del 7 ottobre scorso?

Come rifugiati, soprattutto fuori dalla Palestina, ci siamo sempre sentiti abbandonati. Da quando si parla della soluzione dei due Stati, abbiamo sempre ricordato che c’è la questione dei rifugiati, del diritto del ritorno, che deve essere affrontata. Durante i negoziati di pace ci siamo sempre sentiti traditi, nel senso che non avremmo avuto indietro i nostri diritti. Il 7 ottobre ci ha dato un po’ di speranza che c’è la possibilità di riaffermare la giustizia e che c’è un’entità che chiede indietro la nostra terra. Non è giusto che Israele spinga il popolo di una terra in campi, questo è colonialismo. Detto questo, è stato molto triste vedere nei video la fine fatta da alcune persone colpite dagli attacchi di Hamas, non accettiamo il modo in cui i civili sono stati trattati. Ma la sola azione di entrare nei territori occupati e rivendicare il diritto dei palestinesi a essere lì è l’affermazione della nostra richiesta di giustizia, dopo che tutte le strade della giustizia internazionale e le proteste pacifiche hanno fallito.

Eppure sono state commesse tante atrocità, come nel caso degli ostaggi…

Chi abita nei campi di Shatila e a Burj el-Barajneh muore ogni giorno per i più diversi motivi, perché non sono luoghi sicuri, per i fili dell’elettricità non messi in sicurezza, per lo spaccio di droga. Con gli attacchi del 7 ottobre abbiamo avuto la speranza di resistere all’occupazione e di poter finalmente tornare a casa. È stato uno dei giorni più felici della nostra vita. Ci siamo sentiti rafforzati, sentivamo crescere in noi la speranza del rientro, che non avremmo dovuto aspettare altri cento anni. Per esempio nel caso degli ostaggi israeliani nessuno ha pensato a come sarebbero stati uccisi ma che 200 ostaggi avrebbero permesso il rilascio dei prigionieri palestinesi in mano agli israeliani. Come Walid Daqqa che ha una lunga degenza in carcere dovuta al cancro. Vogliamo che dopo 25 anni escano per rivedere i loro figli almeno una volta. Abbiamo pensato: finalmente i nostri prigionieri potranno essere liberi. Come è il caso di Ahmed Manasra, in carcere da quando aveva 13 anni, colpito da schizofrenia perché lo picchiano, perché lo isolano in prigione. Forse potrà tornare a casa e alla normalità.

Qual è stata invece la reazione dei rifugiati palestinesi agli attacchi israeliani che hanno fin qui provocato oltre 15mila morti?

È molto triste questa fase per noi. Dalla felicità siamo passati alla frustrazione. Eppure non diciamo che la colpa è di Hamas. Non è la prima guerra per noi. Viviamo situazioni simili da anni, nel 2021 ci sono stati attacchi israeliani senza che Hamas avesse fatto veramente qualcosa, ogni Ramadan subiamo oppressione e arresti. Abbiamo subito tante guerre ma questa è la più dura, abbiamo visto un gran numero di bambini morire. Ora siamo devastati, ci scagliamo sui social network contro la propaganda israeliana. Siamo feriti, ogni bambino è il nostro bambino. Chiunque nel campo non ha dormito dal primo giorno del conflitto.

Hala Abu Saada, 13 anni, volontaria all’istituto Tamer a Gaza, lavorava con bambini sordo-muti, è stata uccisa in un raid israeliano nel campo di Jabaliya a fine ottobre. Perché bambini come lei possono essere presi di mira in un campo profughi?

Questa è la normalità. Non solo i campi, ma anche le scuole e le cliniche delle Nazioni Unite vengono colpite. Lo Stato israeliano trova scuse, come quella degli scudi umani o dei “simpatizzanti dei terroristi”, per giustificare questi attacchi. Hanno legittimato l’uccisione di chiunque. Come fanno a stabilire che sono simpatizzanti dei terroristi? E anche se lo fossero, chi dà loro il diritto di commettere omicidi di massa in questo modo? È una scusa per sterminare una comunità, per praticare pulizia etnica. Se la metà sono bambini siamo di fronte a una vendetta per rimuovere un popolo e prendere la sua terra.

Perché i raid israeliani prendono di mira proprio i campi profughi, come Jabalia e Nuseirat?

I campi profughi sono i luoghi più abitati e per questo vengono colpiti. L’idea israeliana è che sia più facile nascondere armi o concepire atti terroristici in un campo profughi. È più difficile trovare irregolarità commesse in un campo perché è sovraffollato. E così per l’esercito israeliano il campo è un luogo ambiguo. Neanche l’intelligence può identificare con certezza cosa c’è dentro. In realtà i campi sono congestionati perché sono il luogo dove si concentra la vulnerabilità umana, si va lì in cerca di protezione per i bambini, non si va lì per organizzare attacchi terroristici. Tutto questo serve a togliere umanità ai palestinesi. Eppure la morte di queste persone è giustificata, sono come “danni collaterali”. E così è chiaro che chi vive nel campo crede nella resistenza più di altri, di combattere contro l’ingiustizia. L’origine della resistenza sono sempre i campi. Se vivi in un campo non accetti mai la realtà e la tua condizione ti ricorderà sempre che esiste l’ingiustizia e che devi continuare a combattere. Per questo Israele continua a colpire i campi, perché ricordano loro le atrocità commesse.

Questo sta provocando un nuovo genocidio?

Sì, perché chiunque vive a Gaza è considerato responsabile di quello che ha fatto Hamas. La situazione è la stessa di tutta la Palestina. Se sei un palestinese, se sei scappato dal genocidio della Nakba (1948), anche se ora vivi in un campo, non hai scampo, affronterai un nuovo genocidio. Anche a Beirut i profughi palestinesi non si sentono più al sicuro. Mi viene in mente il massacro del 1982 nei campi di Sabra e Shatila a Beirut per esempio. Erano rifugiati che scappavano dalla Palestina e li hanno uccisi qui nel campo. In altre parole, la storia si ripete.

Un altro obiettivo degli attacchi sono gli ospedali, come al-Shifa, ma tanti altri come al-Ahli, al-Nasr, al-Quds, al-Rantisi, perché?

Non penso che ci siano davvero dei motivi specifici per colpire gli ospedali. Dicono che i sostenitori o le strutture di Hamas sono concentrate lì ma non è vero. Uccidono (l’esercito israeliano, ndr) per uccidere. Se accendiamo la televisione israeliana in varie ore della giornata si sentono bambini cantare: li uccideremo e avremo casa a Gaza. Attaccare ospedali e scuole ha un significato molto preciso. L’esercito israeliano vuole lanciare il messaggio che i palestinesi a Gaza non hanno scampo, devono andare via. Il piano è di impaurire il più possibile le persone, devono dimostrare che la sola salvezza è nell’emigrazione. Lo scopo non è combattere Hamas ma controllare Gaza.

Che ruolo sta avendo il movimento sciita libanese Hezbollah nella guerra?

Quello di cui abbiamo bisogno da Hezbollah è il sostegno, a livello governativo in Libano nessuno ci sostiene. La vera guerra è tra l’occupazione israeliana e il movimento di liberazione in tutto il mondo. Israele non è contro i palestinesi ma contro il movimento di liberazione in tutto il mondo. Fin qui Hezbollah combatte in maniera limitata, non so se il conflitto potrà estendersi. Dalla prospettiva dei campi profughi, in questa guerra Hezbollah non ha fatto abbastanza. Al confine tra Israele e Libano ci sono solo scaramucce, il minimo per tenere i sostenitori del movimento sciita impegnati ma senza creare danni. Il movimento non ha agito nel pieno delle sue possibilità, con il sostegno iraniano che ha, come è avvenuto nel 2006. Può essere che questo sia dovuto alle pressioni che il movimento ha subito da parte delle autorità libanesi. C’è molto malcontento nei campi profughi palestinesi in Libano, i rifugiati chiedono pieno sostegno per Gaza, per salvare i palestinesi, per impegnarsi nel conflitto e sostenere Hamas. E sono anche delusi perché vorrebbero che tutti i Paesi arabi prendessero parte in queste azioni militari. Un combattimento nel pieno delle capacità può davvero mettere alle strette l’esercito israeliano e avere un impatto sul genocidio di Gaza.

La strategia dell’esercito israeliano è di spingere i palestinesi dal Nord al Sud di Gaza. Questa guerra farà sorgere nuovi campi e aumenterà il numero dei rifugiati?

Questo è sempre stato il progetto: rimuovere e spostare il maggior numero di palestinesi possibile. Ora hanno una scusa per farlo. In Cisgiordania hanno un controllo migliore, ci sono le colonie, e il coordinamento con l’Autorità palestinese. Gaza invece è sempre stata il cuore della resistenza. Usare le persone come se fossero pedine è disumano, viola tutti i diritti umani, non si può chiedere alle persone di lasciare la loro terra. Tanti palestinesi dicono moriremo qui, ci siamo mossi da Gerusalemme a Gaza, in ogni guerra abbiamo perso la nostra casa. Siamo pronti a morire. Questo è un modo di liberarsi del problema di Gaza. I palestinesi e gli egiziani non accetteranno un altro spostamento di palestinesi. L’80% dei palestinesi di Gaza sono già rifugiati, diventerebbero doppi o tripli rifugiati. Non succederà. I media israeliani mostrano Gaza Nord come svuotata ma non lo è. Vogliono continuare a bombardare ma ci sono ancora tanti palestinesi nel Nord mentre continuano i raid. Chi si è spostato dal Nord sa che non può trovare rifugio in scuole e ospedali perché sono possibili obiettivi dei raid e quindi vive in tende di fortuna, sotto la pioggia. I bambini muoiono di freddo, non hanno acqua né cibo. E poi non c’è abbastanza posto per tutti nel Sud di Gaza che già prima della guerra era sovrappopolata.

La figura della militante palestinese Leila Khaled è stata duramente criticata a partire dalla sua partecipazione a un evento per la Palestina organizzato dagli studenti dell’Università di Torino, cosa ne pensa?

Chi vincerà questa guerra scriverà la storia. Sono un’attivista, oppressa dall’occupazione, ho vissuto in un campo profughi tutta la vita, non ho il senso di appartenenza a un Paese, non ho diritti, vedo Leila Khaled come un’eroina. Ha resistito all’occupazione e alla colonizzazione, è come Nelson Mandela in Africa. Se il Sud Africa non avesse vissuto la liberazione, Mandela non sarebbe stato ammirato come un simbolo. Un giorno la Palestina sarà libera e tutto il movimento di liberazione avrà ottenuto i suoi diritti. Leila Khaled sarà ricordata come un’eroina.

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