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Morire d’agricoltura per un pomodoro in più

Vite da braccianti a Borgo Mezzanone, in Puglia, e Campohermoso, in Andalusia, dove per pochi euro i migranti lavorano in serre che arrivano a 55 gradi

Un gruppo di baracche nell’insediamento informale di Borgo Mezzanone (Foggia)
(C. Colliva)

È quasi l’alba e la via principale di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia (Puglia), si colma di gente. Sono tutti braccianti agricoli diretti verso i campi, chi su un furgone, chi in macchina, chi in bici o a piedi. La maggior parte è di origine migrante. A 2’500 chilometri di distanza, la località di Campohermoso, in Andalusia, si risveglia allo stesso modo. Decine di braccianti, quasi nessuno spagnolo, attendono nei pressi di una rotonda che macchine e furgoni passino a raccoglierli per portarli a lavorare in una delle serre della provincia di Almeria. A fine giornata, in pochi avranno portato a casa il minimo sindacale. Soffocati dal caldo afoso dell’estate mediterranea, con temperature che spesso superano i 40 gradi e arrivano a toccare anche i 50 nelle serre spagnole, raccolgono ortaggi che andranno a riempire gli scaffali dei supermercati europei. I loro datori di lavoro non forniscono acqua potabile, né aree ombreggiate per riposare. Le pause, ad ogni modo, sono un lusso che spesso non gli è concesso. Molti non hanno un contratto, né un permesso di soggiorno. Guadagnano tra i 3 e i 6 euro l’ora. Ogni anno, nei campi, qualcuno ci lascia la vita.

Uccisi da fatica e indifferenza

“Lavorare in agricoltura assomiglia allo stare su un campo di battaglia”, dice Hakim, 48 anni, originario di Tema, la più grande città portuale del Ghana. Fino a due anni fa, faceva la raccolta del pomodoro nella zona di Foggia. Come tanti dei braccianti agricoli della provincia, vive in un insediamento informale: la baraccopoli di Borgo Mezzanone, che si erge in un campo a pochi chilometri dal piccolo centro abitato ed è la più grande d’Europa, con all’incirca 4’000 presenze.

Hakim, ormai veterano delle estati passate a faticare sotto il solo, ricorda che nel 2015 sono morte 15 persone per via del caldo nei campi pugliesi. “Le ho viste con i miei occhi”, afferma. Secondo l’Asl di Foggia, nella provincia, sono due i braccianti a essere deceduti l’estate scorsa per cause riconducibili a un colpo di calore avvenuto mentre lavoravano nei campi. La Flai-Cgil, il più grande sindacato di lavoratori agricoli in Italia, sostiene che, su tutto il territorio italiano, i decessi siano almeno 5.


C. Colliva
Un lavoratore dei campi che attende l’auto che lo porti al lavoro

Poiché non esistono dati aggregati sulla salute dei lavoratori agricoli in Italia, è difficile quantificare l’entità dei danni causati dalle loro condizioni di lavoro, in particolare gli effetti a lungo termine che possono derivare dall’esposizione prolungata al caldo estremo. Uno studio condotto dal progetto Worklimate dell’Ispettorato del lavoro, tuttavia, ha rivelato una correlazione diretta tra le alte temperature e l’aumento degli infortuni sul lavoro nel settore agricolo. Il team di ricerca ha anche dimostrato che lavorare ad alte temperature ha gravi conseguenze per la salute, sottolineando l’importanza dell’idratazione e delle pause per evitare ripercussioni gravi. I lavoratori agricoli, soprattutto quelli di origine migrante, tuttavia, raramente vi hanno accesso.

“Per gli italiani sì, ma non per gli africani,” dice Moussa, 30 anni, citando ciò che gli è stato ripetuto più volte dal suo datore di lavoro quando chiedeva una pausa. È emigrato in Italia dal Mali nel 2008 e fino all’estate scorsa ha sempre fatto il bracciante agricolo, alloggiando anche lui nella baraccopoli di Borgo Mezzanone e lavorando perlopiù nell’uva da tavola.

Secondo la legge, i suoi turni non avrebbero mai dovuto superare le 6 ore e 40 minuti, ma spesso ha dovuto lavorare più a lungo. Molte aziende incoraggiano i braccianti a rimanere oltre l’orario stabilito, anche se ciò significa lavorare nelle ore più calde della giornata, senza uno strascico d’ombra per ripararsi dal sole, racconta Moussa. L’unica acqua a cui lui e i suoi colleghi avevano accesso sul luogo di lavoro era quella che riuscivano a portare con sé nelle proprie borracce. A quanto attestano i braccianti, questa è una pratica comune nei campi pugliesi.


C. Colliva
Manifesti di protesta degli agricoltori

Altra pratica diffusa è quella di lavorare senza contratto. "Nemmeno noi cerchiamo più di ottenerne uno”, dice Hakim. “Tanto poi in busta paga ti segnano solo tre giornate al mese”. La raccolta del pomodoro è particolarmente brutale. Dura appena un paio di mesi, in piena estate, e i lavoratori vengono spesso pagati a cottimo, piuttosto che in base alle ore lavorate. A causa di questa pratica retributiva, i braccianti fanno sforzi disumani per guadagnare qualche euro in più, rassegnandosi ai danni che ciò comporta per la loro salute fisica a lungo andare. Khady Sene, rappresentante della Caritas di Foggia, racconta che ogni anno, dopo la raccolta, innumerevoli braccianti si rivolgono alla sua organizzazione con problemi di salute, da lesioni muscolari a mal di schiena cronico. “Vediamo spesso condizioni di para-schiavismo”, dice.

Soffocati dal mare di plastica

Come in Italia anche in Spagna molti braccianti agricoli di origine migrante alloggiano in baraccopoli. Uno di questi è Karim, 24 anni, originario della città di Beni Mellal in Marocco. Il suo punto di ingresso in Europa è stata la Sicilia, dove è sbarcato nel 2009 all’età di 10 anni, dopo un’insidiosa traversata del Mediterraneo. Ora divide con una amica, Nur, una piccola baracca che ha costruito lui stesso nell’insediamento informale di Atochares, uno dei più grandi dell’Almería. Come la maggior parte delle 78’000 persone di origine migrante impiegate nel settore agricolo della provincia, sia Karim che Nur lavorano in una serra nelle vicinanze della baraccopoli.

La provincia di Almería vanta circa 32’554 ettari di serre. Osservando immagini aeree del suo paesaggio, o anche semplicemente effettuando una rapida ricerca su Google Earth, è possibile distinguere una distesa di teloni bianchi talmente vasta che l’area è ormai divenuta nota come “mar de plástico” (il “mare di plastica”). Uno studio del 2017 condotto all’interno di una di queste serre ha registrato una temperatura atmosferica di 55 gradi in agosto.


C. Colliva
Il mare di plastica delle serre della provincia di Almeria

Secondo Samba, un lavoratore senegalese di 46 anni con esperienza ventennale nelle serre della regione, quando le temperature iniziano ad aumentare nei mesi estivi, il caldo diventa insopportabile già alle 10.30 del mattino. “Ogni estate sento dire che almeno una persona muore di caldo nelle serre”. Come nei campi pugliesi, i datori di lavoro non forniscono acqua ai braccianti che faticano nelle loro serre, sebbene la legge spagnola imponga di farlo. L’anno scorso, Samba ha visto uno dei suoi colleghi, Farid, collassare mentre stavano lavorando. È stato lui a soccorrerlo: gli ha fatto aria e gli ha dato dell’acqua. Farid si è ripreso, ma nella caduta si è rotto l’anca e ora vive, e lavora, con un dolore cronico.

Anche in Spagna, come in Italia, non esistono dati aggregati sulla salute dei lavoratori agricoli. Tuttavia, uno studio condotto da Fernando Plaza, ex infermiere e professore all’Università di Almería, ha dimostrato che molti pazienti che si rivolgono ai servizi sanitari per presunti incidenti domestici o stradali sono in realtà stati coinvolti in incidenti avvenuti nell’ambiente di lavoro. Per gli immigrati che lavorano in nero, dire la verità spesso significa perdere il lavoro, e così incidenti e malattie cosiddette professionali non vengono denunciati.

Samba e Farid, quantomeno, hanno un permesso di soggiorno. Karim ancora no, ma finalmente ha un contratto di lavoro che gli permetterà di avviare la procedura per regolarizzare la sua residenza in Spagna. Lavora sette giorni su sette, 8 ore al giorno, per 6 euro all’ora. Nonostante il salario minimo legale in Spagna sia di 8,28 euro, si considera fortunato. La maggior parte degli abitanti di Atochares guadagna meno. Inoltre, per le persone non in regola come lui, è comune dover pagare il proprio datore di lavoro per ottenere un contratto. “Non il mio capo però”, dice Karim orgoglioso.

Il cuore dei raccolti europei

L’Italia e la Spagna sono al primo e al terzo posto in Europa per valore aggiunto dei rispettivi settori agricoli. Nel 2022, l’agricoltura pugliese ha realizzato una produzione complessiva di quasi 4,5 miliardi di euro. La provincia di Almería, invece, durante la stagione di raccolta 2021/2022 ha esportato frutta e verdura per un valore totale di 3,7 miliardi di euro. Sia la Puglia che l’Almería, così come la Spagna e l’Italia più in generale, esportano i propri prodotti ortofrutticoli in tutto il continente europeo.


G. Santana
Pomodori lasciati a marcire fuori da una serra in Almería, Spagna

“La frutta e la verdura che raccogliamo viene spedita in tutta Europa. E se non fossimo qui noi? Come farebbero a esportare i prodotti in Germania, Francia e altrove?”, si chiede Samba. Da Berlino a Parigi, da Bruxelles a Zurigo, gli scaffali dei supermercati sono pieni di frutta e verdura raccolta da persone come lui. Come Hakim, Moussa e Karim. Nonostante il loro lavoro sia parte integrante dell’economia italiana e spagnola, e sia indispensabile per i consumatori europei, i braccianti, intrappolati sul gradino più basso della filiera agricola, continuano lavorare e vivere in condizioni disumane, in totale violazione delle normative nazionali, europee e internazionali. Soprattutto d’estate, con le temperature in continuo aumento, le problematiche si acuiscono, ma i rimedi continuano a mancare.

Un futuro incerto

In attesa di avere accesso a un lavoro regolare e un alloggio degno, diritti che gli spettano per legge, il futuro di molti braccianti agricoli rimane un grande punto di domanda. Karim si immagina una vita in Spagna, ma sogna il giorno in cui potrà tornare a Bena Millal a trovare sua madre. Proprio come l’ultima volta, prima che gli togliessero il permesso di soggiorno. "Ho preso un aereo per Casablanca. Lei era in cucina. L’ho chiamata al telefono e mi ha detto che le mancavo tanto, e io le ho risposto: girati, sono dietro di te.” Quando finalmente avrà i documenti in regola, potrà sorprenderla più spesso.

Moussa, invece, ha finalmente trovato un lavoro stabile nel nord Italia e ora condivide un appartamento con un paio di amici. Quando torna a Foggia quattro mesi dopo il trasloco per recuperare alcune cose che ha lasciato indietro, è una persona diversa. Seduto nell’auto di un suo amico alza il volume della musica e balla per tutto il tragitto. Guardando i campi scorrere fuori dal finestrino, gli stessi su cui ha lavorato per quindici anni, proclama: "Cara Foggia, non cambi mai”. Il suo tono, sebbene rassegnato, nasconde una nota di tristezza.

Da parte sua, Samba si accontenta della speranza che le sue figlie, cresciute in Spagna, avranno un futuro migliore di quello che il paese ha concesso a lui, e non pensa di tornare in Senegal. Non può portare via le sue bambine dall’unica casa che conoscono. Hakim, il più anziano dei quattro, perde momentaneamente il suo stoicismo quando si immagina di lasciare l’Italia e tornare a Tema, la sua città natale. La sua voce trema leggermente quando parla del porto dove è cresciuto, del banco del pesce di sua madre, dei suoi fratelli. “Tornare? Sì, perché no. Forse un giorno”.


G. Santana
Un pozzo scavato dagli abitanti dell’insediamento di Atochares

Il caldo torrido delle estati Mediterranee è ancora più opprimente per le migliaia di braccianti agricoli che vivono in uno dei tanti insediamenti informali d’Europa. Le loro abitazioni, fatte di lamiera, cemento e plastica, si surriscaldano come forni, diventando inabitabili. Seduto nella via principale della baraccopoli di Borgo Mezzanone, in provincia di Foggia (Puglia), Hakim, bracciante agricolo originario del Ghana, si guarda intorno esausto. “Qui fa molto caldo”, dice indicando le centinaia di baracche che lo circondano. “È come nel deserto africano. E molte delle nostre case sono fatte di metallo... è impossibile viverci”.

Condizioni disperate

Con le sue 4’000 presenze, quello di Borgo Mezzanone è l’insediamento informale più grande d’Europa. Quasi tutti i residenti sono braccianti agricoli. Ci sono circa 10’000 persone in Italia che vivono in un insediamento informale, e tra queste, oltre 7’000 si trovano in Puglia, la regione con il maggior numero di aziende agricole.

A Borgo Mezzanone, quantomeno, gli abitanti hanno accesso a servizi igienici, elettricità e acqua potabile, fornita attraverso 6 cisterne installate dall’amministrazione locale. Su tutto il territorio italiano, tuttavia, ci sono almeno 150 insediamenti informali, e la maggior parte non è altrettanto attrezzata. Meno della metà dispone di acqua potabile o elettricità. Solo un quarto di servizi igienici.

Dall’altro lato del Mediterraneo, nel sud della Spagna, le condizioni abitative dei braccianti agricoli sono, se possibile, ancora più precarie. Nelle regioni dell’Andalusia, Castilla la Mancha e Murcia, oltre 6’000 persone vivono in insediamenti informali simili a quelli in Italia. Più della metà si trova in Almería, la provincia che impiega il maggior numero di persone in agricoltura (un quarto della popolazione, rispetto a una media nazionale del 4%).

Nell’insediamento di Atochares, uno dei più grandi, l’unica acqua a disposizione sgorga da quattro pozzi rudimentali scavati dai residenti stessi, ed è rigorosamente non potabile. Gli abitanti la trasportano alle proprie abitazioni in contenitori di plastica recuperati nei campi, spesso previamente utilizzati per contenere pesticidi. Sono obbligati a farla bollire per purificarla quanto possibile, e la usano per lavarsi, cucinare e pulire. Per bere devono affidarsi all’acqua in bottiglia.

Se qualcuno accusa un problema di salute, come spesso accade data l’insalubrità delle loro condizioni abitative, i servizi sanitari locali non offrono alcun tipo di assistenza. A quanto attesta Fernando Plaza, ex infermiere e professore all’Università di Almería, anche in casi di emergenza, le ambulanze della provincia si negano a recarsi negli insediamenti informali. Il prezzo, spesso, è il sacrificio di una vita.

Questa inchiesta è stata realizzata grazie al sostegno del Journalism Fund Europe e del fondo IJ4EU dell’European Journalism Center.

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