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In viaggio nel Donbass (quasi) fantasma

Appunti dall’Ucraina sventrata dai russi, tra volontari, combattenti, mucche e sacchi neri. ‘È Facile essere pacifisti quando la guerra è lontana’

(Keystone)
19 aprile 2023
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Siversk è una piccola cittadina di circa diecimila abitanti nell’oblast di Donetsk. Dal tre di luglio la città è sotto attacco da parte delle forze russe. Arrivarci da Sloviansk è un’odissea. La strada principale è interrotta. Un ponte è stato distrutto. Si deve prendere una deviazione dalla M03, la strada che porta a Bakhmut. Ci si muove su vie sterrate piene di buche, ricoperte da fango e neve, seguendo camion militari che si muovono lungo queste strade secondarie. Il Gps segnala solo la posizione, non c‘è rete e non si può usare il traffico dati per trovare indicazioni su Google maps. Da aprile a Siversk mancano l’acqua, il gas, la corrente. Le comunicazioni non funzionano. Una delle tante città fantasma in Donbass, dove la popolazione rimasta cerca di sopravvivere in ogni modo. Una tormenta di neve esplode rendendo impossibile vedere a pochi metri di distanza. In giro non si vede una macchina, nulla, sembra tutto abbandonato. Davanti alla stazione dei treni, chiusa da mesi ormai, c’è la palazzina del comune. All’interno due operai dell’amministrazione locale e una donna smistano scatoloni dell’Unicef.

‘La città è finita’

“Quanti ne dobbiamo portare?” grida uno. “Sono quarantaquattro”. Le scatole contengono kit igienici. Sapone, salviette, shampoo, assorbenti, fazzoletti, dentifricio. Il necessario per lavarsi e prendersi cura di sé stessi. Cose che qui non si trovano più da tempo.

“Dobbiamo fare presto. Qui tra poco iniziano a bombardare”, dicono. Normalmente i russi iniziano a colpire la città nel primo pomeriggio. Uno dei due uomini carica l’auto e parte veloce. Pochi minuti di strada e arriva davanti a un negozio. Fuori un gruppo di persone, la maggior parte anziani, è in attesa di ricevere gli aiuti. C’è anche un furgone delle poste arrivato da fuori, scortato dalla polizia, che sta consegnando le pensioni a domicilio. All’interno del negozio, Natasha – la proprietaria – ha un foglio e una penna in mano e spunta i colli. Poi esce e incomincia a gridare nomi: “Kisimirenko c‘è? Ecco, tenga la penna e firmi qui. Questo è suo”. Le persone che ricevono il pacco spariscono velocemente rientrando nelle loro case. Il negozio ha un generatore di corrente e non ha mai chiuso nonostante alcuni colpi di artiglieria siano caduti poco distante e lo abbiano danneggiato, racconta Natasha. “Non c’è più nulla da fare qui. Trasporti ferroviari, autobus, non va nulla, tutto distrutto. La gente deve andare via da qui per trovare un lavoro o sfollare; deve arrivare in qualche modo a Kramatorsk dove c’è un treno con il quale può andare a Kiev o da qualche altra parte in Ucraina. Da Siversk puoi solo scappare con la tua macchina, se ne hai una, o grazie ai volontari. La città è finita. Non riusciamo neanche a seppellire i nostri morti al cimitero perché sta nella parte est, la più esposta, e lì i bombardamenti si susseguono in continuazione. Così, se qualcuno viene a mancare, informiamo l’amministrazione comunale, scriviamo la data del decesso sul passaporto, scattiamo una foto del defunto e poi lo seppelliamo nell’orto di casa o nei giardini pubblici. Io non ho mai chiuso da quando è scoppiata la guerra, questo è il mio negozio, ma quando bombardano pesantemente l’unica cosa da fare è scendere in cantina e pregare”.

Generazione ‘bruciata’

A pochi chilometri dalla città un gruppo di soldati sta armeggiando intorno a un’antenna mobile. È una squadra droni dell’esercito. Vlad, trentatré anni e una laurea in architettura, sta dando indicazioni ai suoi compagni. Uno di loro ha in mano un Leleka-100, aliante di produzione ucraina utilizzato per la ricognizione aerea. “Se volete rimanere qui con noi dovete sapere che è non è per niente sicuro. I russi ci hanno già colpito due volte con i loro droni kamikaze. Finora ci è andata bene, ma non è scontato che non possano attaccare di nuovo e in qualsiasi momento”.

Nel furgone, i soldati controllano il drone attraverso due monitor: uno fornisce tutte le coordinate e l’altro è la semplice visione aerea ripresa dalla camera del drone. “Ecco, guarda, qui si vedono distintamente dei carri armati russi che stanno sparando. Di solito tirano qualche colpo e poi si ritirano muovendosi in luoghi coperti e cercando di nascondersi. Lo sanno che li vediamo. Il nostro compito è tracciare questi mezzi e altro equipaggiamento russo sul fronte di Bakhmut e poi fornire le coordinate all’artiglieria. Decideranno loro se colpire o meno. Vlad e i suoi in pratica vivono per la maggior parte del loro tempo dentro questo furgone. “Un anno di guerra e probabilmente durerà altrettanto. Nessuno lo sa. E stiamo bruciando la parte migliore della nostra società. È triste tutto questo. Il mio battaglione è stato decimato. Tante persone sono morte, i migliori. Ma non c‘è scelta. La nostra generazione si sta sacrificando per quelle future. Questa guerra non finirà mai se non distruggiamo l’esercito russo. Non possiamo fare altro che combattere”.

Vlad e i suoi commilitoni

Vlad e i suoi commilitoni fanno parte della 95a brigata aerea d’assalto. Il suo ex comandante, il generale Mikailo Zabrodski, è un eroe di guerra e uno dei più stimati militari in Ucraina. È stato comandante delle Forze d’assalto aereo ucraine dal 2015 al 2019. Il drone Leleka-100, al rientro, prende un colpo di vento e atterra su un’ala, rompendola. Il soldato che è andato a recuperarlo evita una mina antiuomo posta a pochi centimetri dai suoi piedi. È tutto minato qui. Secondo l’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (Osce), la guerra nel Donbass ha portato alla piantumazione di migliaia di mine terrestri, causando la morte di centinaia di civili e il ferimento di migliaia di altri. Le operazioni di sminamento sono complesse e richiedono tempo, risorse e personale altamente addestrato. L’Ucraina ha iniziato ad affrontare il problema con il supporto di organizzazioni internazionali e volontari venuti da ogni parte del mondo, ma ci vorranno anni, forse decenni, per sminare completamente il Paese. Vlad chiede se può essere accompagnato alla sua base, vicino Lyman, a una trentina di minuti di macchina, per prendere dei pezzi di ricambio per il drone.

Amuleti disegnati

“Qui prima c’erano i nostri ceceni del battaglione Sheik Mansour. Ora sono a Bakhmut”. All’interno di questa base (della quale non riveleremo particolari dettagli per questioni di sicurezza), in una grande sala è stata allestita una cucina con un tavolo pieno di cibo e dolci. Alcuni soldati sono seduti, ognuno guarda il suo cellulare. C’è silenzio. Un uomo parla al telefono, sottovoce. Qualcuno accende una radio nella sala adiacente. Musica classica, Vivaldi. Ci sono dei fogli sparsi su uno dei tavoli. Sono decine di disegni fatti dai bambini e mandati qui, in mezzo al nulla. Disegni di famiglie che si tengono per mano, bandiere dell’Ucraina, uomini e donne, padri e madri, vestiti da soldati. Riti magici di bambini che pretendono di spostare gli astri con il loro pensiero. Amuleti, talismani disegnati per far sì che tutto andrà bene, nessuno potrà farsi male e tutti torneranno nelle proprie case a sorridere e ad abbracciarli di nuovo. Vlad rientra nella sala per prendere dei panini e del tè caldo per i suoi compagni. “Torniamo da loro. Sistemato il drone continuiamo tutta la notte utilizzando i sensori termici”. La guerra non si ferma.

In mezzo a questa neve, tra Izium e il fiume Oskil, a cavallo tra la regione di Kharkiv e quella di Donetsk, Mykola sta portando delle mucche da Bakhmut in un villaggio di contadini. Mettere in salvo le loro bestie è stato l’unico modo per convincere una coppia di anziani a lasciare la loro casa in mezzo ai bombardamenti. Mykola è un volontario di Kramatorsk. Sessant’anni e una lunga barba bianca. Da quando è iniziata la guerra muove il suo furgone tra le regioni di Donetsk e Kharkiv cercando di portare aiuti. Prima lavorava nel settore minerario. Oggi gira con una sua coetanea, Irina, ambientalista. A volte persone che sembrano così lontane si incontrano annullando ogni differenza quando si tratta di prestare aiuto agli altri, di donarsi sapendo che qui potrebbe essere sempre l’ultima volta.

Mykola lascia la mucca e il suo vitello da alcuni suoi parenti, poi prosegue lungo tracciati quasi inesistenti in mezzo ai campi. Si ferma quando incrocia la casa di Alla, due stanze scaldate da una stufa a legna. Ha una candela dentro un barattolo di vetro che le illumina il volto. La sua casa è fatta di legno e compensato. La cucina e il bagno sono fuori, all’esterno. “Volete del borsch? L’ho fatto oggi. È buono, sapete?”.

Alla ha perso la madre lo scorso settembre. L’hanno trovata la mattina, distesa in cucina, colpita da una scheggia di bomba. È stata seppellita in giardino. Sopra di lei un letto di brina.

Quel viso stanco

Albina, la paramedica di Mykolaiv del battaglione 206, vista l’ultima volta il giorno della controffensiva ucraina nella regione di Kherson, adesso è in Donbas. È con la sua squadra medica sulla strada che porta a Bakhmut, a circa sette chilometri dalle postazioni russe. I rimbombi dei colpi di artiglieria in partenza e di quelli in arrivo squarciano continuamente l’aria. Qui le autolettighe aspettano i feriti che arrivano dal fronte. È il primo punto di stabilizzazione dove i soldati ricevono le prime cure per poi essere portati nell’ospedale più vicino che è quello di Kramatorsk.

Albina un paio di mesi fa ha subito una violenta aggressione da un suo commilitone, che l’ha presa a pugni e calci in testa lasciandola a terra con un trauma cranico. Futili motivi, forse una parola di troppo. Il suo comandante però non l’ha difesa, non ha preso nessun provvedimento e ha preferito prendere le parti dell’altro soldato. Così lei e suo marito Yura, dopo aver fatto denuncia alle autorità di Kiev, hanno chiesto il trasferimento in un’altra unità in cerca di un ambiente più sicuro. Albina ha il viso stanco. Un anno di guerra e di delusioni si fanno vedere sul suo volto giovane. I suoi capelli mogano e fucsia hanno una lunga ricrescita. “Non ho tempo per me, qui lavoriamo giorno e notte e i feriti arrivano continuamente. A volte non dormiamo perché dobbiamo fare doppi turni. E non arrivano solo i feriti”. Albina indica un furgone dall’altra parte della strada che sta scaricando dei sacchi neri. Quattro cadaveri vengono allineati sull’erba, sotto un albero.

I Riti magici dei bambini, con i loro disegni talismano, questa volta non hanno funzionato.

“È facile essere pacifisti quando la guerra è da qualche parte lontana e non ti riguarda, ma quando ti tocca personalmente e devi proteggere la tua casa, la tua famiglia e i tuoi cari, inizi a guardare queste cose in modo molto diverso”, dice Yuri Cherevatenko, pastore di una chiesa evangelica di Sloviansk. “La nostra peggiore paura è quella di svegliarci in una città occupata. Se succedesse nuovamente, come è stato qui nel 2014, ho deciso che lascerò questo posto per ultimo, ma sono sicuro che Dio non permetterà che ciò accada. Alcuni dei nostri fratelli sono stati torturati e fucilati nel 2014. Ero a Dnipro quando lo scorso gennaio un missile russo ha colpito e distrutto un edificio di nove piani. Quando vedi persone che hanno figli o genitori sotto le macerie, è molto difficile dire loro: amate i vostri nemici”.

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