Società

InOltre, alla scoperta della scuola in carcere

Entriamo alla Farera con Mauro Broggini, ideatore della formazione in penitenziario: "In”, pensando al dopo, “Oltre” le sbarre...

19 luglio 2019
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Il complimento più bello, in 42 anni di insegnamento, Mauro Broggini lo ha ricevuto da un detenuto: «Maestro, tu non sei un uomo di parole, ma di parola. Mi ha commosso, lui non aveva nessun interesse a dirmelo».

In questa intervista contravveniamo, forse, alla regola della “giusta distanza”. Al Cpt-Spai a Locarno, alla scuola InOltre in penitenziario, il prof. Broggini è semplicemente il Mauro. Il sorriso facile, il modo schietto di fissarti con i suoi occhi azzurri, la sua energia trascinante e contagiosa chiamano un “tu” confidenziale. Mauro Broggini corriponde al profilo del docente insofferente alle burocrazie e ancora convinto che la regola del «buon maestro», come dice lui, sia voler bene ai propri allievi. Questo il faro che lo ha guidato in oltre quattro decenni di lavoro come insegnante di cultura generale, come docente mediatore e come ideatore e coordinatore, fino alla fine di agosto, della scuola InOltre in penitenziario: «In perché è fatta dentro, Oltre perché guarda al dopo la detenzione».

Con lui abbiamo varcato la soglia della Farera, dove si trovano donne e minorenni in attesa di giudizio. Qui il regime è duro, 23 ore di cella e una d’aria. La scuola è un raggio di luce in giornate troppo lunghe, l’occasione per sfuggire le proprie ombre e nutrirsi di stimoli positivi. Anzitutto, un momento in cui sentirsi ancora persone in relazione con il mondo oltre la cella.

In aula, attorno ai tavoli, ci accolgono quattro storie, altrettanti visi femminili disponibili all’ascolto e all’incontro, nonostante tutto. Qui si legge, si dialoga, si fanno lezioni di cucina o di cucito. Una donna mi mostra con orgoglio il vestito da lei realizzato. È bello, davvero: non immaginava di esserne in grado, non aveva mai cucito prima.

Quello della scuola InOltre è per Mauro uno dei due sogni professionali realizzati. Il primo era stato la figura del docente mediatore: «Abbiamo iniziato in tre o quattro nella scuola professionale, adesso sono circa 50, dallo scorso anno anche nei licei». Qualche settimana fa Mauro ha concluso la sua esperienza di docente a Locarno, ora non gli resta che accompagnare la transizione con chi lo sostituirà in carcere, dove fin dal primo giorno, nel 2006, è stato coordinatore della formazione. Resterà però sempre vivo il ricordo, ci dice, di quei ragazzi che non ce l’hanno fatta, quelli che si sono persi su strade per loro troppo tortuose, fatte di devianza, abbandono, dipendenze e sofferenza.

È pensando a loro che molti anni fa ha iniziato a immaginare quella che sarebbe divenuta la scuola InOltre. Negli anni, oltre alle lezioni ha proposto conferenze e concerti, sempre a costo zero, grazie alla generosità dei tanti che si sono messi a disposizione: «Vedere 80 detenuti nella palestra della Stampa che ascoltano e cantano musica è qualcosa che mi fa emozionare».

Scuola e cultura, due strumenti fondamentali per il reinserimento. Ma ancor prima si tratta di «far capire loro che non sono dimenticati». Mauro cita un dato: «Ci sono donne docenti e mai, mai nessuna è venuta a dirmi che un detenuto le ha mancato di rispetto. Questo è un primo passo: se inizi a rispettare l’altro quando sei dentro, forse lo farai anche fuori».

Stimoli culturali e formativi molto diversi fra loro, portati da persone appassionate, possono aprire finestre su di sé e sul mondo capaci produrre conseguenze impreviste. È un pensiero ingenuo, ottimista, realista?
Io ci credo. Soprattutto alla Stampa i discorsi fra di loro sono sempre gli stessi: l’avvocato, il processo, il procuratore... Il portare la scuola, il portare le conferenze e i concerti, dà l’opportunità di cambiare argomento e di crescere. L’importante è aprire queste finestre, poi sta a loro affacciarsi e vedere che cosa sta attorno. Per altro le persone esterne in questi anni sono sempre state molto motivate, perché entravano in un ambiente di cui si parla sempre ma che non si conosce realmente. Tempo fa mi diceva il professor Romer, uomo di scienza, che raramente ha trovato l’attenzione e il piacere di apprendere visti in penitenziario. L’importante è portare loro la positività.

Ritorniamo alle origini? Che cosa ti ha condotto in carcere?
Ho cominciato a venirci 40 anni fa per seguire dei ragazzi che frequentavano la Spai e che magari finivano quaggiù. In questo modo ho conosciuto altri giovani, ai quali ho cercato di dare una mano, per un apprendistato o per la scuola, ma più che altro per rendere loro visita. Anche qui si proponeva qualcosa, in modo però non strutturato. Finché un direttore illuminato, Mauro Belotti, mi ha convocato nell’imminenza dell’apertura della Farera. Con lui c’erano Mauro Albisetti, giudice dei provvedimenti coercitivi, e l’allora giudice dei minorenni Silvia Torricelli. Belotti mi ha detto: “È una vita che coltivi l’idea della scuola: adesso mettila in piedi”. Così ho pensato alle materie canoniche da inserire in un carcere – cultura generale, informatica, educazione visiva, ginnastica, un po’ di matematica – aggiungendo educazione alimentare e cura della casa, perché vedevo il degrado igienico in cui erano abituati a vivere alcuni ragazzi, soprattutto tossicodipendenti. L’anno dopo l’inizio alla Stampa, dove si è iniziato a formare anche apprendisti: cucina, stamperia, legatoria e falegnameria.

Con quale emozione si chiude questa pagina della tua vita?
Chiudo con la consapevolezza di aver fatto un percorso bellissimo, di aver coronato un sogno. Porto nel cuore il sorriso, la riconoscenza di gente che a volte mi capita di incontrare fuori, e magari con un semplice “grazie” ti dice molto di più che con tante parole. È importante, ha un valore, perché io stesso dopo ogni lezione dico sempre loro “grazie” per la cortesia, l’attenzione, la partecipazione, la schiettezza con la quale sono entrati in contatto con me. Il mio orgoglio è sapere che non esiste un altro penitenziario in Svizzera con una struttura formativa come la nostra. La mia esigenza era però quella di poter accompagnare i detenuti anche una volta usciti, quindi 42 anni di scuola professionale mi hanno permesso di conoscere molte persone che possono offrire loro un lavoro: ci sono ex allievi che hanno tre o quattro anni meno di me...

Qual è la sensibilità nella nostra regione verso ex detenuti che vorrebbero un’altra occasione anche a livello professionale?
Dal mio punto di vista il Ticino si è sempre dimostrato un cantone aperto. In questi anni mai ho avuto la porta sbattuta in faccia, ho sempre trovato ascolto anche in datori di lavoro scottati da una prima esperienza negativa. Credo che il tutto risieda nel fatto di essere chiari fin dall’inizio, pur senza entrare nei dettagli del vissuto della persona che si va a presentare. Molti giovani hanno fatto il loro percorso, altri si sono persi di nuovo, così ho imparato che nessuno può avere la presunzione di possedere la bacchetta magica con cui risolvere il malessere del prossimo. Però ricordo ragazzi e ragazze che sono state delle autentiche scommesse, magari in settori delicati come la sanità, e che sono state vinte.

Come gestire le emozioni innescate dal varcare la soglia del carcere: incontrare la sofferenza altrui, sapere di avere di fronte qualcuno che forse ha commesso qualcosa, come dici tu, di ‘inenarrabile’?
Non c’è una ricetta. Di molti noi non sappiamo perché sono lì. Io sono genitore, marito, insegnante, sono anche stato giudice di pace: l’idea di certi reati mi rivolta dentro. Però si deve fare lo sforzo, con noi stessi e con gli altri, di restare legati al nostro obiettivo: portare lì dentro la scuola, portare quelle due ore di sollievo in persone che spesso sono dimenticate da tutti. Se poi riusciamo a metterci qualcos’altro – una carezza, un abbraccio, un sostegno – meglio ancora. Poi, è chiaro, andare via è sempre un peso, soprattutto con i minori fa male. Resta la consapevolezza che la scuola può essere la chiave di volta.

Per chiudere questo cerchio, torniamo al primo giorno di lezione in penitenziario?
Il primo non lo ricordo, ma ricordo da dove sono partito la prima volta che negli anni 80 sono venuto qui. Era un ragazzo che frequentava la Spai, finito in carcere. È morto un paio di anni fa, purtroppo dopo una vita ai margini, fatta di dipendenze e di malattia. Poco tempo prima l’ho incontrato a Locarno e mi ha ricordato che tanti anni prima ero andato alla Stampa per lui, per andare a trovarlo. A quei tempi non era ancora stata istituita la figura del docente mediatore, ma io avevo già questa visione di un docente che andasse oltre la semplice trasmissione di nozioni. Ripensandoci adesso, finisco felice di quel che ho fatto e altrettanto felice guardo avanti, a quel che farò. Intanto ringrazio già chi porterà avanti l’avventura della scuola InOltre.

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