Locarno Film Festival

La vita in Piazza Grande e la gioventù in Concorso

Commuove ‘The Old Oak’ di Ken Loach; non convincono ‘Nuit obscure - Au revoir ici, n'importe où’ di Sylvain George e ‘Baan’ di Leonor Teles

‘The Old Oak’
(©Sixteen Oak Limited, Why Not Productions)
9 agosto 2023
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Ottantasette anni, compiuti a giugno, a Cannes era più giovane di un paio di mesi, sono tanti quando l’età comincia a dirti: per fortuna oggi non sono nella pagina dei morti, lo confida lui, Ken Loach a Locarno, insieme al fido Paul Laverty, di più di vent’anni più giovane, per presentare in Piazza Grande ‘The Old Oak’.

Ken dirige Paul scrive. “È un lavoro di gruppo il cinema, spiega Loach, non è vero che è il regista da solo che fa il film, il film è una squadra di calcio e ognuno contribuisce alla vittoria”. Una vittoria che non è venuta a Cannes e non se ne può rammaricare troppo visto che la Giuria della Croisette ha avuto il coraggio di non premiare anche lo splendido ‘Fallen Leaves’ di Aki Kaurismäki e il magnifico ‘Perfect Days’ di Wim Wenders. Scelte pesanti perché la Giuria di un Festival ha il dovere di segnalare cammini di cinema, esempi, non seguire mode o politiche corrette.

Dolore e ampi cieli di speranza

Le odia Ken Loach le politiche corrette, quelle che nascondono la realtà della società, quella stessa società che da sempre è al centro del suo dire. E ‘The Old Oak’ è l’oggi più impellente politicamente, quello dell’accoglienza dei migranti vicino alla nostra casa. L’Europa fa leggi, ogni Paese europeo fa leggi, la stessa Gran Bretagna erige barriere, nonostante il suo Primo ministro sia Rishi Sunak, nato da genitori indù emigrati dall'Africa orientale. “È il più duro di tutti contro gli altri migranti, dice Loach”. E nel film mostra le conseguenze delle scellerate scelte politiche inglesi, flotte di migranti vengono scaricate nelle zone del Durham che stanno pagando la chiusura delle miniere dopo gli scioperi del 1984-85 dovuti alla violenta scelta della Signora Thatcher, delle fabbriche, il fallimento delle ferrovie, della sanità pubblica, che ha portato all’abbandono dei luoghi, alla svalutazione delle case, alla chiusura dei negozi e di tanti pub, luoghi di incontro, ultimi restati, rari, dopo la chiusura delle parrocchie. Ed è in uno di questi villaggi abbandonati da Dio e da tanti uomini che Ken Loach fa sbarcare un gruppo di profughi siriani in fuga dalla guerra nel loro Paese.

Netta la posizione del regista contro Hassad, e netta la sua posizione contro la bieca destra fascista che in questi villaggi ha incanalato il malcontento e la rabbia. Succede infatti che l’arrivo della comitiva sia accolto violentemente da un gruppo di cittadini, con un energumeno con indosso la maglietta di una squadra di calcio che assale una giovane siriana che sta testimoniando il loro arrivo rompendole la macchina fotografica. È l’inizio di una storia segnata dal dolore ma anche da ampi cieli di speranza. Tra chi l’accoglie, lei si chiama Yara (un’intensa Ebla Mari), c’è TJ Ballantyne (un commovente Dave Turner) che è il proprietario del The Old Oak, ultimo pub del luogo. Sarà lui a pagare il costo della riparazione della macchina fotografica, lui a farle capire dove si trova, i minatori, le loro famiglie, il senso del condividere anche il pasto, e insieme recupereranno quella tradizione dando da mangiare a famiglie locali affamate e saranno le donne siriane a cucinare per loro, a condividere, e inutilmente il bieco mondo fascista colpisce TJ, offendendolo, chiamandolo traditore, sbranando il suo cane, manomettendo i servizi della cucina dove preparavano il cibo, ma quest’uomo solo, abbandonato dalla moglie, con il figlio che non gli parla, quest’uomo che ha tentato di suicidarsi, di fronte all'improvviso dolore della ragazza (da vedersi al cinema), comprende il bisogno di continuare a lottare, per tutti quelli che lo meritano. Concittadini poveri, bambine e bambini senza futuro, migranti siriani e altri che forse verranno. Ecco Loach fa cantare al cinema la sua più bella ballata. Applausi.

Concorso internazionale

Non c'è tragedia, solo noia

In Concorso sono passati ieri due film: ‘Baan’ (Casa) opera prima della giovane regista portoghese Leonor Teles e ‘Nuit obscure - Au revoir ici, n'importe où’, una coproduzione franco svizzera del regista lionese Sylvain George, parte seconda di un film ‘Nuit obscure - Feuillets sauvages’ dello stesso George presentato sempre qui a Locarno lo scorso anno fuori concorso. Quello durava 265 minuti, questo si ferma a 183 minuti, ma come allora molti se ne sono andati dalla sala dopo un’ora, perché si tratta di un film criptico.

L’autore aveva da dire molte cose su questo film i cui protagonisti sono giovanissimi migranti fermi a Melilla, un'enclave spagnola in Marocco. Hanno superato il primo passaggio in Europa, hanno bruciato i documenti per non essere mandati indietro nei Paesi da cui vengono. Il regista non riesce a spiegare con le immagini, per tre ore mostra questi giovani topi in gabbia, ma non c’è tragedia, solo noia.


© Noir ProductionAlina Film
‘Nuit obscure - Au revoir ici, n’importe où’

Solo divertissement

Ben altro è il gioco ‘Baan’ di Leonor Teles, che è un divertissement sul cinema, una variazione su ‘In the Mood for Love’ di Wong Kar-Wai. Con una lei che vaga innamorata di un’altra lei che appare e scompare, e in mezzo generazioni di giovani che corrono da un Paese all’altro, da un Continente all’altro per cercare un futuro che sembra ogni volta cadere in un infinito burrone. È il nostro tempo.


© Uma Pedra no Sapato
‘Baan’

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