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Privata liturgia della contrizione

A proposito di Carlo Gesualdo, le cui musiche sono state suonate lo scorso 24 marzo nella Cattedrale di Lugano nel ciclo dei Vesperali

Carlo Gesualdo, noto anche come Gesualdo da Venosa
10 aprile 2024
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Prima che Stravinsky riconoscesse nelle sue ardite soluzioni compositive un grado di affinità – ricomponendo per strumenti nel Monumentum pro Gesualdo di Venosa tre dei suoi madrigali – la musica di Carlo Gesualdo era riuscita a sopravvivere per tutto il Seicento e oltre, presso gli spiriti più attenti ai valori del linguaggio in trasformazione, i quali (da Schütz ad Alessandro Scarlatti) la praticarono come oggetto di studio, di confronto e di verifica nel loro personale laboratorio. In verità già all’origine la musica del Principe di Venosa era nata per soddisfare il bisogno essenzialmente privato del suo autore, che specchiava se stesso nella realtà di suoni sottratti alla pubblica attenzione. Egli fece uscire i suoi primi due libri di madrigali nel 1594 per i tipi privilegiati ed esclusivi dello stampatore ducale a Ferrara, dove il nobile napoletano aveva preso residenza nei primi anni del suo matrimonio con Leonora d’Este e dove soprattutto il suo interesse si appuntava sulla qualità della musica prodotta nella più raffinata e “reservata” corte italiana del tempo, con orecchio attento alle musiche di Luzzasco Luzzaschi e dei compositori che gli gravitavano intorno, in cimento quasi diretto con i loro traguardi espressivi. Quando nel 1596 egli fece ritorno a Napoli, la decisione di ritirarsi definitivamente nel suo feudo di Gesualdo significava che il segreto luogo mentale a cui fino a quel momento aveva destinato la sua musica si traduceva in un’effettiva relegazione nel castello di famiglia, ad affermare un’orgogliosa aristocraticità, lontano dal clamore, dagli intrighi, dal contatto con qualsiasi consorzio umano.

Tale altèra autocondanna alla solitudine fu per molto tempo e romanzescamente giudicata come pena inflittagli dal destino per l’assassinio ferocemente ordinato della prima consorte colta in atto flagrante di adulterio, episodio che nel 1590 aveva alimentato sensazionalisticamente le cronache mondane e che poeti cortigiani (con in testa Torquato Tasso) si erano incaricati di immortalare in pietose rime alla memoria della leggiadra e sventurata principessa. L’intrico di arte e vita, di sensibilità e violenza, di istinto e premeditazione favorì fin troppi tentativi di tracciare a Carlo Gesualdo audaci paralleli con più moderne situazioni di decadentismo e di interpretazione biografica dell’esperienza artistica. In verità, anche senza il fatale episodio che segnò la sua esistenza, la sua musica avrebbe assunto l’inquieta e visionaria fisionomia che manifesta, vivendo essa una reale e sofferta parabola di fin de siècle (il tramonto della “prima pratica”) e uno stato di ipersensibilità nei confronti di un linguaggio in piena mutazione.

Esasperazione

Il suo orientamento estetico si svolge nel segno dell’esasperazione. Già a livello di scelte poetiche in Gesualdo vien meno quell’equilibrio tra testo letterario e discorso musicale che aveva motivato l’affermazione del madrigale come genere prediletto nella sofisticata società cortigiana del Rinascimento, cioè la traduzione sonora dei valori poetici non solo considerati nella loro dimensione fonica e immaginifica, bensì assecondati nella loro articolazione metrico-sintattica che induceva la musica a rispettare nell’integrità del poema il fattore della propria omogeneità. Dopo il ricorso nei suoi primi due libri a una dozzina di titoli del Tasso, a sei testi del Guarini e a qualche altro sparso poema di riconosciuta paternità, i successivi madrigali di Gesualdo (il Terzo Libro del 1595, il Quarto del 1596, il Quinto e il Sesto del 1611) fanno prevalentemente capo ad autori anonimi, a testi utilizzati come frammenti di pochi versi, alterati nella loro logica e destituiti dalla loro qualità letteraria. La dimensione epigrammatica di tale poesia, radiografata in immagini vivide ma disarticolate, è ricercata come elemento costitutivo di un discorso polifonico in cui la musica celebra il primato sul testo, imponendogli formule esclusivamente governate dal principio sonoro. Vi detta infatti legge la dialettica dei contrasti tra episodi distesi in passaggi cadenzati omoritmicamente in valori di lunga durata e momenti di brusco risveglio per mezzo di animazione spesso melismaticamente fiorita e fiammeggianti di semicrome. In tale polarizzata struttura si inseriscono varianti stilistiche disparate, tutte all’insegna della forzatura del dato linguistico.

Lo riconosciamo nel nervoso e spigoloso disegno della frase melodica, nei larghi salti intervallari, oppure nella tesa disposizione di intervalli corti sull’arco insolito di una settima (quarta più quarta, o quinta più terza). Lo riconosciamo nel cromatismo emergente ad ogni morbida sollecitazione di metafora poetica, a cui non basta più il tocco di varietà coloristica risolta nello spazio di una battuta, ma che deborda in corso fluente a modificare l’assetto melodico e l’equilibrio armonico sempre più spinto verso la dissonanza assecondata nella sua crudezza. A volte (in Mercè grido piangendo e in altri casi) l’azione del cromatismo non conosce sosta e sensualmente pervade l’intera composizione, al punto da suscitare l’impressione di trovarci davanti a una forma madrigalistica in negativo, esattamente rovesciata ed alternativa rispetto al modello di madrigale regolato sulla contemplativa visione poetica petrarchesca. Derogando da quel filone, e sulla linea di predecessori già orientati nella direzione della “seconda pratica” (Rore, Wert, Marenzio, ecc.) Carlo Gesualdo vi libera il fiero gesto individuale dove la compiaciuta carica soggettiva spezza il consueto ordine narrativo.

I brani sono stati eseguiti lo scorso 24 marzo nella Cattedrale di Lugano dall’Ensemble De Labyrintho diretto da Walter Testolin, nel ciclo dei Vesperali organizzato dagli Amici della Musica in Cattedrale.

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