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Un personaggio uno e trino

Sulla tanto auspicata ‘Trilogia di Thomas’, di Vitaliano Trevisan, che ora esiste arricchita da una postfazione bella e intelligente di Emanuele Trevi

Vitaliano Trevisan, 1960-2022
(Keystone)
26 marzo 2024
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Segnalando l’uscita di Black Tulips, auspicavo la ripubblicazione dei romanzi, in parte ormai di difficile reperibilità, che Vitaliano Trevisan ha dedicato a Thomas: Un mondo meraviglioso (1997), I quindicimila passi (2002), Il ponte (2007). Ora che la Trilogia di Thomas esiste, arricchita da una postfazione bella e intelligente di Emanuele Trevi, mi piacerebbe tornare con maggiore distensione sul giudizio che davo del personaggio, “una delle figure più coerenti e riuscite che la letteratura italiana abbia offerto negli ultimi decenni”.

Provo qui a suggerire non certo una tesi, piuttosto un’ipotesi di lavoro: la coerenza di Thomas – e quindi la riuscita in quanto personaggio – sta nella sua capacità di dar vita a uno spazio letterario, l’unico terreno in cui le idee, anche contrastanti, possano “incarnarsi senza escludersi” (Walter Siti).

Sono forze che investono in primis Thomas e la costruzione dei suoi ritratti, al plurale, giacché non si tratta dello stesso personaggio, ma di una figura una e trina che Trevisan rimodella nel passaggio da un romanzo all’altro. Una dinamica tra movimenti divergenti che si manifesta tuttavia anche nella relazione tra elementi ricorrenti, negli aspetti strutturali e formali, nel tessuto stilistico.

Dunque, Thomas. Certo, nei tre libri si conservano il nome, l’origine vicentina, il disturbo bipolare, l’incessante tendenza a rimuginare. Ma diversi appaiono i legami sentimentali e, soprattutto, la condizione economica e la struttura familiare. In Un mondo meraviglioso Thomas ha una sorella cui è principalmente demandato il compito di sollecitarlo ad andare a trovare il padre in ospedale (all’inizio del romanzo) e di avvisarlo della sua morte (alla fine), mentre più sfocata appare la figura materna. Ne I quindicimila passi il finale rivela l’assoluta solitudine di Thomas e lascia intuire l’uccisione della sorella. Ne Il ponte l’omicidio di un famigliare stretto (la madre) tornerà a essere solo vagheggiato, e accompagnato dal desiderio di scrivere “un testo sulle madri che dica tutto delle madri, inchiodandole alle loro responsabilità”.

Diversa è, soprattutto, la lotta tra Thomas e il suo male di vivere, l’accettazione dell’infelicità come condizione ineliminabile: al wonderful world rovinato dall’uomo – “che suona male” – si sostituiscono l’esclusività della malattia e, di riflesso, l’esplicita ammissione ne Il ponte dell’inaffidabilità del racconto (“Io sono malato, devo dirmi sempre, e non posso fidarmi delle conclusioni alle quali arrivo, per quanto queste conclusioni mi appaiano corrette e inequivocabili”), a cui, con movimento opposto, corrisponde tuttavia l’apparente normalizzazione della percezione della realtà da parte del protagonista. Così, il cortocircuito tra vita e letteratura su cui è costruito il racconto di Aleksandra (“Puro Dostoevskij, pensavo”) e la galleria di personaggi deformi del primo romanzo si riducono progressivamente al solo muratore dalla gamba di ferro del secondo libro e, infine, alle teste di sasso urlanti che Thomas raccoglie nel fiume in prossimità del ponte.

Lo sguardo più o meno deformante sul Mondo andrà pertanto indagato accanto al processo di erosione della memoria e alla problematicità del rapporto con il passato, manifestamente esibiti nelle zone liminari dei paratesti. All’esergo del primo libro (“Ma un passato che ritorna, pensavo, è un passato che non se n’è mai veramente andato”) andranno allora collegati la prefazione del secondo romanzo (“Mentre rammento con chiarezza tutto ciò che riguarda il mio spostamento da casa all’ufficio del notaio, e il colloquio con lui, inspiegabilmente non ricordo nulla riguardo al ritorno”) e il sottotitolo del terzo tassello (“Un crollo”, anticipazione del nucleo narrativo ed emotivo del libro: “Approfittare del crollo del mio passato nel mio presente […] per cercare di rimettere insieme alcuni elementi, relativi a quello stesso passato”).

I tre libri condividono una topografia – vicentina ed esistenziale – fatta di dettagli ricorrenti che delineano un reticolato di fondo percorso da smagliature più o meno vistose: la curva del Cristo e le discese in bicicletta da Monte Berico; Thomas seduto sui gradini della veranda o, sguardo basso, intento a censire ciò che trova sull’asfalto. Iterazioni che non precludono la variazione, spesso con ribaltamento dei significati: così, sotto un cedro del Libano sta la panchina sulla quale Thomas rievoca con affetto la figura paterna e la straordinaria scena infantile del luccio (Un mondo meraviglioso); su un cedro del Libano Thomas ricorda di essersi rifugiato per sfuggire alla punizione della madre (Il ponte).

Tuttavia, anche temi e motivi più cogenti appaiono diversamente affrontati. All’interno dei saldi perimetri determinati dai lutti familiari che incorniciano i tre romanzi (il primo si chiude con la morte del padre; il secondo si apre con la morte della sorella e si chiude con quella del fratello; il terzo si apre con la morte del cugino) si estende la riflessione del protagonista sul suicidio. Nel romanzo d’esordio la ricerca di senso non appare ancora preclusa (“[…] desidero vivere ancora un po’, pensavo, solo un po’, quel tanto che basta per arrivare a conoscere il perché”) e il suicidio è una possibilità concepita ma appunto non nominabile. Ben diversa sarà la prospettiva nel terzo libro (“[…] tenevo dentro l’idea del suicidio, come una specie di riserva, un pensiero in cui, nei momenti più bui, trovavo un po’ di conforto”) e, soprattutto, nel secondo, in cui Thomas fa risuonare qualche eco leopardiana: “Pensare di continuo alla morte e al suicidio non vuol dire che si debba arrivare a togliersi davvero la vita, anzi, pensavo, non è escluso che proprio questo continuo pensare al suicidio e alla morte non ci preservi, se non dalla morte, almeno dal suicidio”.

È un’evoluzione di pensiero che mi pare seguire lo stesso movimento della riflessione sul valore della letteratura. Il salvifico orizzonte di possibilità del primo romanzo (“[…] e sono fortunato che ho ancora una casa e dentro la casa i miei libri: quelli mi aspettano sempre”) è riassorbito dalla cupa disperazione che segue la morte del piccolo Filippo nel romanzo finale (“[…] neanche così trovavo pace, non tra le pagine di Melville, non tra quelle di James, e non Kafka, non Walser, non Stifter, non Bernhard né Beckett”).

I movimenti della mente assediata di Thomas, la sua incessante e maniacale tendenza a stabilire dei nessi anche tra gli elementi più irrelati del mondo che lo circonda non mi pare riescano tuttavia a infrangere i solidi confini della costruzione testuale; come se le contorsioni del personaggio venissero in qualche modo normalizzate dalla coscienza letteraria dell’autore. Nei tre libri si assiste infatti allo stratagemma di un racconto scritto in terza persona (“scrive Thomas”) subito convertito in un lungo monologo; alla rivelazione finale di un elemento inaspettato; alla presenza di pagine saggistiche sistemate entro un esilissimo perimetro narrativo.

Infine, occorrerà analizzare nel dettaglio lo stile, e soprattutto le sue variazioni tra i tre romanzi e all’interno dello stesso romanzo. Un lavoro sistematico che permetta di non liquidare la questione con formule generiche e generalizzanti sullo stile “inconfondibile” o “bernhardiano” di Vitaliano Trevisan. Se certo è efficace e verissima la definizione complessiva di Emanuele Trevi, per cui si tratta di una prosa “che procede nella ripetizione e nella sottile variazione, come un serpente che riavvolge le sue spire prima di andare avanti”, ho come l’impressione che Trevisan tenda con lo scorrere della trilogia a raffinare ulteriormente la propria straordinaria capacità di fare aderire le parole al flusso magmatico delle cose, abbandonando i (peraltro già rarissimi) compiacimenti di Un mondo meraviglioso.

Per rendersi conto della complessità di questa figura una e trina basterà allora osservarla nella più patente mise en abyme de I quindicimila passi e probabilmente dell’intera trilogia. Quando cioè Thomas si specchia nella riproduzione delle Tre teste di Francis Bacon esposta in una galleria d’arte vicentina.

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Una versione più lunga e articolata di questa recensione è apparsa sul sito leparoleelecose.it.


Dall’alto, in ordine di uscita: 1997, 2002, 2007

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