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Scienza, arte e i viaggi di Salman

La seconda parte dell’approfondimento sull’Alzheimer, riflessioni sulla mostra di Luigi Rossi in corso a Rancate e una voce palestinese

Pubblichiamo contenuti da ‘Otium’, pagina culturale a scadenza mensile

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Alzheimer: teorie, prassi, modelli di cura

di Matteo Borri, storico della scienza

A integrazione della prima puntata apparsa su ‘Otium’ il 29 settembre scorso, questo seconda s’incentra sull’evoluzione degli approcci terapeutici della malattia di Alzheimer (AD). Di cura, di terapia, si parlava già nel 1978, anno in cui venne pubblicato uno tra i più importanti articoli scientifici su questo tema. In esso, Smith e Swash assieme ad altri colleghi studiavano il rapporto tra la colina e l’acetilcolina in relazione col fenomeno dell’AD. L’articolo, uscito sulla rivista ‘Lancet’, proponeva ciò che nella prassi diverrà in breve tempo l’approccio colinergico. In estrema sintesi: nel cervello l’acetilcolina – un neurotrasmettitore coinvolto nella comunicazione tra le cellule nervose – invia messaggi da una cellula all’altra. Successivamente un enzima – l’aceticolinesterasi – distrugge l’acetilcolina subito dopo che ha svolto il suo compito in modo che questa non si accumuli tra le cellule nervose. Già nei primi anni ’80, l’ipotesi colinergica legata alla patogenesi della AD si rivelò un forte stimolo per tutte quelle strategie farmacologiche volte a correggere il deficit cognitivo manipolando la neurotrasmissione colinergica. Tra queste strategie, quella basata sull’inibizione dell’acetilcolinesterasi ha avuto una grande fortuna, tanto da essere tra le più sviluppate per la terapia dell’AD. I meccanismi d’azione degli inibitori sono molto complessi. Nel cervello di pazienti affetti da AD si riscontrano riduzioni significative dei livelli di acetilcolina e tali riduzioni possono contribuire a quei sintomi ben noti che sono la perdita di memoria e/o il disorientamento. Queste conoscenze hanno condotto allo sviluppo di farmaci che aumentano i livelli di acetilcolina nel cervello – gli inibitori dell’acetilcolinesterasi. Tali farmaci agiscono bloccando l’enzima che degrada l’acetilcolina, aumentando così la quantità di questo neurotrasmettitore nel cervello. Le ricerche, infatti, hanno dimostrato che non c’è sufficiente acetilcolina nel cervello dei malati di Alzheimer. L’ipotesi dunque è che, inibendo l’enzima che distrugge l’acetilcolina, si possa mantenere nel cervello una più elevata concentrazione di acetilcolina intatta e, aumentando così la comunicazione tra le cellule nervose, migliorare la memoria.

Negli ultimi cinquant’anni, la ricerca sull’AD ha vissuto cambiamenti significativi tanto nella comprensione della patologia quanto nell’approccio terapeutico. Negli anni ’70, la AD era ancora considerata una forma di demenza senile “rara” e la sua eziologia era indistinta. Le ricerche si concentravano soprattutto sulla descrizione dei sintomi e sullo studio del cervello dei pazienti, attraverso l’analisi dei tessuti post-mortem. Negli anni ’80 e ’90, sono state poi identificate alcune proteine – come la beta-amiloide e la proteina tau – i cui accumuli si trovano in gran quantità nel cervello dei pazienti affetti da Alzheimer. Tali evidenze portarono a una maggiore comprensione delle basi biologiche della malattia e alla ricerca di nuovi farmaci che potessero agire su queste proteine per – ancora una volta – prevenire o rallentare la progressione della malattia.

Nei decenni, la ricerca sulla AD non ha mai abbandonato l’approccio colinergico, concentrandosi anche sulle cause sottostanti alla riduzione dell’acetilcolina, come la perdita dei neuroni che producono l’acetilcolina nel cervello. Diverse terapie sono ancora attive, come quelle legate alla sostituzione di queste cellule mancanti o la stimolazione di altre cellule cerebrali per produrre acetilcolina, con lo scopo di prevenire o (tentare di) invertire la progressione della AD. Dagli anni 2000 in poi, invece, le ricerche sull’AD hanno visto l’attenzione rivolta sempre più alla diagnosi precoce della malattia e all’identificazione di biomarcatori che potessero aiutare nella sua individuazione prima dell’inizio del percorso dementigeno. Gli studi pertanto sono andati sempre più concentrandosi sulla prevenzione e sulla gestione dei fattori di rischio (come ad esempio l’ipertensione, il diabete o l’obesità). In anni più vicini, infine, la ricerca sull’Alzheimer ha visto un significativo aumento nell’utilizzo di tecnologie avanzate – come l’analisi dell’immagine cerebrale e la simulazione computerizzata – per migliorare la comprensione della malattia.

Cercando di rappresentare (molto) sinteticamente gli ultimi cinquant’anni di ricerca sull’AD possiamo sostenere che questa ha visto un passaggio dalla descrizione dei sintomi alla comprensione delle basi biologiche della malattia, dalla ricerca di farmaci per la gestione dei sintomi a quella di terapie in grado di prevenire o rallentarne la progressione e, infine, dalla cura dei pazienti alla prevenzione e alla gestione dei fattori di rischio associati a una patologia da cui ancora oggi non ci siamo affrancati.

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Le ragioni del cuore

di Matteo Bianchi, curatore della mostra Riflessioni in margine alla mostra di Luigi Rossi 1853-1923

Prologo

Un titolo forse curioso per spiegare come per me l’opera di Luigi Rossi rappresenti l’incrocio ideale fra la cultura e gli affetti, la famiglia e il lavoro: l’artista, del quale si festeggia il centenario della scomparsa, era il mio bisnonno. La sua opera cordiale, insieme profonda e semplice, mai banale, offre allo sguardo le immagini della serenità di cui abbiamo sempre tanto bisogno: un regalo che invita alla gratitudine.

Tanti anni fa da studente, ho avuto la fortuna di scoprire le carte d’archivio di Luigi Rossi grazie alla fiducia della nonna, che era figlia del pittore: i miei docenti Ottavio Besomi e Dante Isella mi hanno incoraggiato a proseguire le ricerche approdate alla prima monografia, curata sotto la guida preziosa di Rossana Bossaglia, e alle mostre presso la Biblioteca cantonale e a Villa Ciani di Lugano.

Identità

Nel 1979 Rossana Bossaglia aveva intitolato il suo saggio su Luigi Rossi, Un artista europeo, ripreso in occasione dell’attuale esposizione alla Pinacoteca Züst di Rancate. Ticinese di nascita, milanese di formazione, illustratore a Parigi, pittore simbolista di area svizzera e infine legato all’amata Pieve Capriasca, Luigi Rossi rivela un’identità aperta, fedele alle motivazioni della sua arte sincera. A suo tempo si diceva “elvetico, milanese, parigino” e anche “français malgré son nom italien”: dal villaggio natìo di Cassarate a Brera, dall’Académie Goncourt alla Commissione federale di belle arti, da Milano alla Capriasca, la storia di Luigi Rossi si è svolta nella misura pacata che racconta la sua opera, fedele ai soggetti sempre trattati con dignità.

L’infanzia e la vita dei campi

Sono i due temi privilegiati dalla sensibilità dell’artista, chiamato a suo tempo “pittore dei bimbi”. Dalla scuola del dolore che si sofferma sull’infanzia che muore, come Anker in un quadro analogo, Luigi Rossi ai primi del Novecento dipinge il luminoso risveglio dei bambini toccati dai primi raggi di luce. Il quadro rispecchia un profondo sentimento di gioia trattenuto nella posa simbolica e nel gesto dei bimbi al risveglio. Rivela anche una costruzione sapiente fondata sul disegno, la fotografia e la stesura delle varianti. La vita dei campi rappresenta una fase saliente dell’opera di Luigi Rossi: il passaggio dalla realtà al simbolo. L’artista dipinge le scene contadine in un primo tempo fedeli alla realtà, poi idealizzate e percorse da una vena nostalgica al momento del declino della civiltà contadina e dello sviluppo dell’industria. Il passo è breve dalle falciature di Rossi alla città che sale di Boccioni…

Educatore democratico, raffinato illustratore

Luigi Rossi svolge un ruolo di profonda sensibilità sociale nella Milano d’inizio secolo presso le Scuole dell’Umanitaria: insegna la pari dignità delle arti conferendo nobiltà alle lingue artigianali. Nel Ticino, accanto all’architetto Guidini, sostiene la forza vitale dell’insegnamento del disegno.

La felice stagione parigina, vissuta a stretto contatto con Daudet e Loti durante la seconda metà degli anni Ottanta, ha prodotto meravigliose edizioni illustrate all’acquarello che si rivela una tecnica consona al fare immediato dell’artista, poi ripresa accanto agli acquarellisti lombardi alla Permanente di Milano: il confronto fra le vignette parigine e i dipinti all’acquarello illustra il passaggio dal libro al quadro.

Raccolte d’arte e scoperte

Oltre alle conferme dei capolavori della Confederazione, di musei svizzeri e italiani, di opere in collezioni private che registrano una mobilità vivace, alcune meravigliose scoperte si aprono allo sguardo del visitatore: accanto al ritratto di Alphonse Daudet che ci guida fra le carte e i libri illustrati, si incontra quello dei fratelli Ciani sul viale del parco sullo sfondo della Desolazione di Vincenzo Vela: speriamo sia di buon auspicio nell’intento di recuperare all’arte lo spazio prestigioso di Villa Ciani. Fra le raccolte d’arte segnalo con piacere quella della Cornèr Banca di particolare sensibilità culturale, e quella della Casa Museo Luigi Rossi nella quale, accanto ai dipinti e ai disegni, sono conservate preziose carte d’archivio. L’attuale catalogo della mostra di Rancate, edito da Pagine d’Arte, prodotto da Salvio in arti grafiche, ne è una esaustiva testimonianza: in copertina, il ritratto gentile della nonna bambina, Genzianella, serena nella quale ritrovo un’aria di famiglia.

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La testimonianza di Salman Abu Sitta

di Gilberto Gilberti, storico

L’opera di Salman Abu Sitta* si può senz’altro definire un’autobiografia ma non è solo la narrazione di una esperienza personale in quanto i fatti della sua vita sono sempre legati in modo profondo con le vicende storiche della sua patria: la Palestina.

Nella vita di un uomo ci sono fatti, eventi che decidono non solo certe banali dinamiche scandite dal calendario, ma segnano la direzione, danno significato e senso a tutta l’esistenza.

Bambino di undici anni vive la tragedia dell’espulsione dalla sua terra dalla sua casa nel sud della Palestina. Ricorda: “In quel fatidico giorno di metà maggio 1948, cavalcando dietro a mio fratello, voltai indietro la testa e gettai un ultimo sguardo al posto in cui ero nato. Guardai i resti fumanti delle nostre case, le macerie della scuola, il mulino demolito. I prati e le palme da dattero scomparvero lentamente dietro l’orizzonte. Il dolore mi ha soffocato, ma non dispero. No. Mi sono sentito come arruolato in una missione di salvataggio, quella missione del ritorno che mi avrebbe accompagnato per tutta la vita…. Ho passato i successivi settant’anni a dare facce e nomi a quei nemici “invisibili”. Il mio al-Main, il luogo di nascita, che era prigioniero nelle loro mani, non è mai diventato di loro proprietà”. Quel bambino si troverà a vivere la sua giovinezza nella cosiddetta striscia di Gaza e vivrà i giorni terribili della prima occupazione, da parte di Israele, di quel territorio, offrendo in queste sue pagine una testimonianza precisa, ricca di particolari, che sono per il lettore occidentale assai poco conosciuti.

Il ragazzo farà molti viaggi, diventerà ingegnere ma non dimenticherà l’impegno a pensare e a lavorare per il ritorno ad al-Main. Scrive: “Il mio viaggio mi ha portato in Egitto, Kuwait, Inghilterra, Canada e in molti altri posti. Ma nessuno di questi era la mia destinazione, queste erano solo stazioni sulla via del ritorno. La destinazione finale, la mia casa, resta il mio unico obiettivo”.

Ad Abu Sitta si deve la fondazione a Londra della Palestine Land Society la cui finalità è provare che i palestinesi, secondo il diritto internazionale, hanno diritto a ritornare nelle terre da cui sono stati espulsi senza dislocare i coloni ebrei. Anche grazie alle sue conoscenze tecniche ha preparato diversi studi al riguardo fino alla stampa di quell’Atlas of Palestine, che costituisce un’opera fondamentale per la conoscenza di tutta la tematica storica palestinese.

Chiunque voglia conosce “dall’interno” (se posso esprimermi così) la tormentata vicenda della Palestina non può esimersi dalla lettura dell’opera di Salman Abu Sitta, una testimonianza unica, specialmente per il lettore di lingua italiana.

* Salman Abu Sitta, La mappa del mio ritorno. Memoria palestinese, Roma, Edizioni Q, 2020

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