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Nella ‘Parigi’ di Julien Green

Per Adelphi, immaginandosi pacifici viandanti cittadini nel paesaggio disegnato dallo scrittore statunitense

14 settembre 2023
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Per chi ama la cultura francese, che un tempo fu ovunque il maggior punto di riferimento della cultura stessa, un piccolo libro di Julien Green, uscito per la prima volta nel 1883, ‘Parigi’ (Adelphi, p.120, trad. Marina Karam), non potrà non risultare gradevole e prezioso. È giusto ricordare che l’opera maggiore di questo scrittore, vissuto tra il 1900 e il 1998 quasi sempre in Francia, dov’era nato, ma da genitori originari degli Stati Uniti, fu pubblicata, l’autore ancora in vita, nella prestigiosissima collezione della Pléiade. E Green scrisse prevalentemente proprio in francese.

Eccoci allora nella sua Parigi, negli umori attivi che lo spingono a parlarne, muovendosi al suo interno come un anonimo flâneur, ben lontano da tentazioni banalmente turistiche, ma assecondando le proprie spontanee reazioni di fronte a quanto gli capita di osservare e valutandone, dal suo personale, acuto e sensibilissimo punto di vista, i mutamenti. Già alla prima pagina, ci dice: “Mille volte ho desiderato che la Tour Eiffel affondasse e mi piacerebbe apprendere che sia il Grand Palais sia il Petit Palais […] sono scomparsi nella notte”. Un amore, dunque, non certo privo di reattività e spirito critico, come del resto un vero amore non può non comportare. E non mancano poi osservazioni di incisività definitoria, come questa: “Scoprii che Parigi aveva la forma di un cervello umano”.

Tra i suoi numi di riferimento ci sono del resto i poeti, tanto che il libro si apre con due epigrafi di Rimbaud e Baudelaire, di cui torna a parlare in un capitolo in cui riprende il concetto di flâneur; e più avanti coinvolge anche Dante. Vediamo allora Green circolare per il bel quartiere di Passy, ricordare la casa di Balzac, ribadendo poi la sua disapprovazione per quelli che considera i troppi “cambiamenti infausti”, lamentandosi anche con i parigini che sopportano la “bizzarria dei loro architetti” o di orrori magari sorti proprio nel cuore della città, della quale, comunque, si sente orgoglioso. Ma il lettore può indugiare sui passaggi di questa Parigi immaginandosi a sua volta un pacifico viandante nel paesaggio delle sue pagine.

Testimonianza coinvolta

E allora addentriamoci ulteriormente nei rivoli di questo viaggio personale, che non trascura altri luoghi celebri, come quando, ci racconta che “il giovedì santo del 1940, sul calar del giorno”, si trovava a Notre-Dame... In questa città, che definisce “brulicante di sogni”, va per musei e strade, convoca mentalmente personaggi della letteratura e dell’arte legati in vario modo a Parigi, ed ecco allora alla “rappresentazione che ne danno Manet, Degas, Monet, così diversa dalla città che vediamo eppure così reale”. E altri ancora, notissimi, compaiono nella sua perlustrazione reale e mentale, appassionata e poetica. Torna puntuale a lamentarsi per lo “sparire degli alberi” e del frequente, colpevole “disprezzo per la natura” della realtà moderna, ribadendo la sua avversione per la Tour Eiffel, che, dice, “aborrisco fin dall’infanzia”…

Un libro che non è certo, dunque, una guida d’autore della città, ma una testimonianza coinvolta di chi se ne sente parte e che in fondo ci invita implicitamente a muoverci con libertà nelle strade, non solo della capitale francese, ma di ogni grande città in cui possiamo trovarci a vivere o a frequentare. Appunto con lo spirito poetico del flâneur, addentrandosi liberamente in strade “il cui incanto è spesso inesplicabile”, mossi da “una certa leggerezza di cuore che regala la vista di un albero accanto a un tetto, oppure, in una via soleggiata, l’improvvisa frescura di una volta buia sotto le sdegnose finestre di un antico palazzo”.

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