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Stilyagi, i Teddy Boys sovietici dietro Arancia meccanica

Un saggio di Cristian Pasotti riscopre le radici ‘russe’ dei Drughi, mostrando la trasversalità geografica della ribellione giovanile

(Samcult)
30 agosto 2023
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Quanta Russia – meglio: quanta Unione Sovietica – c’è in ‘Arancia meccanica’? È una domanda che si saranno posti molti spettatori del capolavoro di Stanley Kubrick (1971), ma anche chi abbia letto il romanzo eponimo di Anthony Burgess (1962). Il dubbio viene anzitutto dal linguaggio: lo scrittore e compositore poliglotta impasta un argot fatto di inglese e russo per metterlo in bocca al quindicenne Alex e ai suoi Drughi, gang di sociopatici dediti all’ultraviolenza, ma anche – una volta messe in prospettiva letteraria le loro azioni aberranti – simbolo della ribellione a un sistema oppressivo. La lectio facilior vede nei Drughi una sorta di rappresentazione grottesca delle varie controculture che negli anni Cinquanta si videro spuntare in Occidente: Teddy Boys inglesi, Blousons Noirs francesi, Raggares scandinavi, Halbstarkers nel mondo germanofono, ma anche Ducktails in Sudafrica e così via; una rappresentazione che poi, nel film di Kubrick, evolverà fino a prefigurare e influenzare il mondo punk, glam e skin. Pochi sanno però che un movimento di ‘ribelli’ c’era anche nell’Unione Sovietica del tardo Stalin e dei suoi successori, Kruscev e Breznev: i cosiddetti Stilyagi.

Un recente saggio pubblicato nel volume ‘Anthony Burgess, Stanley Kubrick and A Clockwork Orange’ (Palgrave Macmillan) recupera storia ed estetica di quel movimento nel contesto della creazione di Burgess, facendoci scoprire una realtà affascinante. Ne parliamo con l’autore Cristian Pasotti, giornalista, ricercatore e dottorando presso la facoltà di Studi culturali e sociali dell’Università di Lucerna.

Cominciamo dalle basi: a chi sono ispirati originariamente i ‘Drughi’?

A tutto quel ribollire di sottoculture giovanili che andavano nascendo già dagli anni 50, e che Burgess aveva incontrato addirittura durante il suo periodo di insegnamento in Malesia prima ancora che nel Regno Unito. Burgess dunque aveva intuito che un’istintiva ribellione giovanile non era appannaggio esclusivo dei Paesi occidentali, pur acquisendo in ciascun luogo diverse specificità: ne ebbe conferma in occasione di un viaggio compiuto nel 1961 in Unione Sovietica, in particolare a Leningrado, dove si imbatté nei cosiddetti Stilyagi.

Pensando ai giovanotti del socialismo reale, tutto viene in mente tranne che dei ribelli vestiti da ‘ganzi’ occidentali, roba da film con James Dean o Marlon Brando. Ci immaginiamo piuttosto le uniformi dei Pionieri e del Komsomol, rigide organizzazioni giovanili dello Pcus.

In effetti – un po’ per stereotipo culturale, un po’ per la rappresentazione monolitica di sé che la stessa Urss teneva a offrire – viene spontaneo pensare che certe forme di ribellione non avessero alcuno spazio da quelle parti. In realtà la società sovietica era molto più stratificata e meno inquadrata: lo stesso Burgess fu stupito quando incontrò questi giovani che sceglievano un abbigliamento particolare, ispirato alle mode occidentali, e ascoltavano clandestinamente musica jazz. D’altronde possiamo notare come una certa spinta al conformismo da parte del ‘sistema’ si trovi tanto nelle democrazie liberali quanto nel socialismo reale, e come essa generi analoghe forme di rifiuto, in particolare tra i giovani.

Qual era l’estrazione sociale degli Stilyagi?

In origine, provenivano soprattutto dalle famiglie più colte dell’accademia e del Politburo, quelle che avevano più facile accesso alla cultura occidentale: si dice che perfino il giovane Gorbacev e alcuni parenti di Breznev fossero prossimi a quella controcultura. Poi, però, la diffusione raggiunse anche altri ambienti, anche attraverso la diffusione clandestina di jazz, inciso su vecchie lastre mediche per raggi X già utilizzate e riproducibili da normali giradischi (un fenomeno chiamato Dzhaz na kostiakh, letteralmente ‘jazz sulle ossa’). Infine – come spesso accadde anche in Occidente, ad esempio agli stessi Teddy Boys – gli Stilyagi finirono per flirtare anche con un sottobosco criminale.

Il nome Stilyagi (letteralmente, “cacciatori di stile”) fu loro affibbiato dal periodico satirico sovietico Krokodil e prontamente fatto proprio da molti. Ma il regime si limitava a prenderli in giro?

Ci fu all’inizio una certa repressione, che si appoggiava anche ai giovani del Komsomol, i quali alle aggressioni mediatiche affiancarono talora anche quelle fisiche. Più avanti, al netto delle sanzioni di condotte più o meno criminali, si finì piuttosto per tenerli d’occhio senza esagerare, anche perché non si trattava in fondo di un vero e proprio movimento di opposizione al sistema.

Dunque non una lotta contro quel sistema, ma piuttosto una forma di ‘dropping out’, un chiamarsene fuori. Un po’ come per i Teddy Boys (e per i Drughi).

In effetti era anzitutto un dropping out, per quanto poi negli Stilyagi siano confluiti, se non proprio dei dissidenti, quantomeno dei critici più articolati del modello sovietico. Come nel caso di Alex, la loro postura ricorda, più che il militante impegnato in una forma di resistenza attiva, un ‘anarca’ come quello immaginato da Ernst Jünger, che si aliena dalla società invece di combatterla frontalmente, nonostante la società stessa possa sentirsene minacciata.

Un approccio che nel caso di Alex porta in manicomio, a subire un ‘ricondizionamento’ violentissimo.

In Occidente si criticava l’Urss per i casi di repressione psichiatrica, ma storicamente le democrazie liberali non fecero meglio: decenni di persone anche solo “non conformi” chiuse in istituti psichiatrici sono lì a ricordarcelo. Inoltre, in Occidente la ribellione giovanile era spesso approcciata come una devianza psicopatologica ancor prima che sociale: il titolo del film del 1955 con James Dean conosciuto in italiano come ‘Gioventù Bruciata’, ‘Rebel Without a Cause’, riprende quello d’un libro del 1944 dello psichiatra Robert Lindner, dedicato alla “ipnoanalisi di un criminale psicopatico”.

A proposito di criminalità, pensando ai Drughi la mente corre subito all’‘ultraviolenza’: le scene di pestaggi brutali rese con incredibile potenza estetica dal film di Kubrick. Anche gli Stilyagi menavano forte?

In realtà la violenza rimaneva un aspetto secondario, ancora una volta limitato a certi fenomeni criminali marginali. Lo stesso Burgess dovette conoscere a Leningrado piuttosto Stilyagi di ‘buona famiglia’, come si desume anche da un altro suo romanzo che ne parla più direttamente, ‘Honey for the Bears’ (‘Miele per gli orsi’). L’ultraviolenza deriva probabilmente più da altre ispirazioni, non necessariamente tali da rispecchiare qualche realtà storica.

Nel libro di Burgess, come nel film di Kubrick, gioca un ruolo importante la musica: Alex è un grande appassionato di classica, e il tentativo governativo di rieducarlo – la famigerata ‘cura Ludovico’ – passa proprio dal farlo nauseare all’ascolto di Beethoven. Anche il jazz caro agli Stilyagi era perseguitato dal Cremlino in quanto ‘cosmopolita’ (un’accusa che nascondeva tra l’altro pulsioni antisemite). Perché Burgess opera questa traslazione?

Burgess era un conservatore nel senso più puro del termine: un anticonformista che si ribella a meccanismi sociali ritenuti imposti all’individuo. Per questo lui – che era anche un compositore – presentò l’ascolto della classica come una ribellione al pop, che riteneva immondizia scaricata sugli individui dal conformismo culturale di un sistema di mercato. Nel farlo, però, prese spunto proprio dalla ribellione degli Stilyagi contro i divieti del Cremlino, che investirono peraltro una musica come il jazz, legata in realtà a una grande tradizione in Russia.

Un altro aspetto – che si nota anche nel film – è quello della lingua: il gergo ‘Nadsat’ dei Drughi è cosparso di parole ispirate al russo (“devocka”, la ragazza, lo stesso “Droog”, oltre a certi salti linguistici dettati dalle assonanze come “golovà” – cranio – che diventa “Gulliver” e “khoroshò” – bello – che diventa “horrorshow”). Anche questo fu ispirato dagli Stilyagi?

Qualsiasi sottocultura ha un suo linguaggio, sia visivo – l’abbigliamento – che nel gergo parlato. Si è già ampiamente e giustamente notato come Burgess abbia sviluppato lo slang del Nadsat impastando inglese, russo, ma anche elementi di dialetto cockney, del linguaggio dei Roma britannici e così via. Meno spesso si è però notato che lo stesso facevano, in modo per certi versi speculare, gli stessi Stilyagi, il cui patois andava a includere molti termini d’importazione: la ragazza è ‘gerla’ (girl), l’abbigliamento è ‘klous’ (clothing), i pantaloni ‘trauzera’ (trousers), il denaro ‘monusky’ (money). Questa ispirazione sarà poi riconosciuta da Burgess presentando la sua sceneggiatura per il film di Kubrick, che poi il regista scartò per adottarne una più snella.

Il dibattito su qualsiasi cultura giovanile è sempre tormentato da un rovello: si tratta di vera ribellione, oppure di uno sfogo superficiale e funzionale al ‘sistema’? Nell’osservare Stilyagi, Teddy Boys e affini, che ne direbbe Burgess?

Burgess era per così dire adorniano prima ancora di leggere Adorno: era cioè consapevole del fatto che anche la ribellione al sistema poteva essere cooptata, fagocitata con la forza o la blandizie dal sistema stesso per poi diventarne strumentale, perdendo in questo la sua genuinità e il suo essere vera ribellione. Si tratta per certi versi di un timore simile a quello che animava Pier Paolo Pasolini, pur ideologicamente molto distante da Burgess. Il quale era preoccupato dalla possibilità di assimilazioni, ma anche di repressioni ‘orwelliane’ ai danni degli individui, dinamiche che poi sono descritte molto bene anche nel film di Kubrick. Il sociologo Stuart Hall – molto importante per l’analisi delle sottoculture giovanili, per quanto oggi considerato superato per il suo approccio fortemente empirico – fu il primo a intuire come tutte queste culture oscillino sempre tra resistenza e cooptazione.

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