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Le Br e il Grande Vecchio, tra Kissinger e Tognazzi

Una teoria del complotto di prima che ci fossero i social. C’entrano il rapimento Moro, il terrorismo rosso, un po’ d’ingenuità e parecchia malizia

(Il Male)
10 maggio 2023
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Che cos’hanno in comune Henry Kissinger, Ugo Tognazzi, Toni Negri, Michail Gorbaciov, Giangiacomo Feltrinelli, Dario Fo e un direttore d’orchestra ucraino? Nel mondo reale, poco o nulla. Nella “storia di carta” dei media italiani, invece, li lega qualcosa di molto importante: ciascuno di loro, prima o dopo, è stato sospettato di essere “il Grande Vecchio”, un burattinaio oscuro che avrebbe manovrato la lotta armata di sinistra tra la fine degli anni Sessanta e i primi anni Ottanta. ‘Il Grande Vecchio’ è anche il titolo del podcast dedicato da Alessandro Parodi a questa teoria del complotto di quando i social ancora non c’erano, ma giornalisti, politici e ceffi poco raccomandabili disposti a propalare bufale clamorose, sì. Le cinque puntate di un’oretta ciascuna – prodotte da ‘Il Post’ e disponibili su tutte le principali piattaforme – si seguono col gusto che spetterebbe a un romanzo e l’incredulità da riservare, ancora una volta, alle clamorose cantonate che punteggiano un’epoca cruciale e tragica della storia italiana: gli anni di piombo.

Parodi, cominciamo dalle basi: che cos’è e come nasce la teoria del Grande Vecchio?

È una teoria cospirativa la cui decisiva affermazione nel dibattito pubblico risale alle dichiarazioni di Bettino Craxi nel 1980. Il segretario del Partito Socialista Italiano sostenne allora che il terrorismo ‘rosso’ sarebbe stato guidato da una mente eversiva anch’essa italiana, ma residente a Parigi. L’idea di un complotto del genere si era già fatta strada l’anno prima – pochi mesi dopo il sequestro e l’uccisione nel 1978 del segretario della Democrazia Cristiana Aldo Moro – con gli arresti di vertici e attivisti di Autonomia Operaia, voluti dal procuratore di Padova Pietro Calogero: il cosiddetto ‘teorema Calogero’ vedeva in Toni Negri e compagni le vere menti occulte dietro alle azioni delle Br. Molti subiranno anni di detenzione preventiva.

Il teorema uscì a pezzi dai processi. Ma a molti risultava difficile credere che un metalmeccanico come Mario Moretti fosse stato in grado di ‘processare’ in modo così politicamente articolato Moro: si cercavano i “cattivi maestri”. Perché?

Questo è il fattore centrale: non si poteva credere che un gruppo di operai, impiegati e studenti potesse compiere da solo azioni del genere. Non ci si poteva credere nelle redazioni, e di conseguenza presso l’opinione pubblica. Ma c’erano anche ragioni politiche: al Partito Comunista Italiano faceva comodo legare a regie altrui, ad esempio americane, le azioni dei cosiddetti “compagni che sbagliano”, così da escluderli dal proverbiale “album di famiglia” della sinistra. A sua volta, la Dc e il Psi – incluso il presidente della Repubblica Sandro Pertini – avevano buon gioco ad attribuire quei crimini all’Unione sovietica, screditando lo stesso Pci. Più in generale, era difficile accettare che certe ‘imprese’ fossero pensate da persone comuni.

Tra i molti sospettati ci furono anche alcuni artisti. In particolare Dario Fo, che insieme alla moglie Franca Rame e all’organizzazione Soccorso Rosso offriva sostegno economico e legale ai sedicenti “prigionieri politici”.

Quella di Dario Fo capo delle Br (alimentata sotto lo pseudonimo ‘Anna Bolena’ da un informatore dei servizi segreti che poi diventerà manager di Vasco Rossi, ndr) è senz’altro l’ipotesi che oggi ci pare più lunare. Ma all’epoca perfino lo scrittore Leonardo Sciascia diceva che certi registi occulti “è possibile che li conosciamo bene, che li vediamo ogni giorno in tv”. D’altronde c’era anche un’oggettiva vicinanza alle frange più estreme della sinistra extraparlamentare da parte di alcuni artisti – Fo, ma anche Gian Maria Volonté, che aiuterà Oreste Scalzone di Autonomia Operaia a fuggire in Corsica con la sua barca a vela – e di intellettuali come Negri, che non disdegnò la propaganda dell’eversione anche violenta, seppure non con la lotta armata come la intendevano le Br.

La “caccia all’uomo” – altra espressione cara ai titolisti dell’epoca – divenne così parossistica che nel 1979 ispirò un feroce scherzo: i redattori della rivista satirica ‘Il Male’ convinsero il re della supercazzola Ugo Tognazzi a farsi fotografare durante un finto arresto. Crearono poi delle prime pagine altrettanto fasulle dei quotidiani La Stampa, Paese Sera e Il Giorno. Titoli a caratteri cubitali: ‘Arrestato Ugo Tognazzi. È il capo delle Br’, ‘Tognazzi è il cervello delle Br’ (poco sotto: ‘Anche Vianello nella direzione strategica’, oppure ‘Vianello: È pazzo ma lo perdono’). Le finte prime, messe ad avvolgere copie dei giornali, circolarono per tutta Italia. Si racconta che il direttore di Paese Sera, vedendole, abbia esclamato “Cazzo! Perché la redazione non mi ha avvertito?”, subodorando la fregatura solo quando vide la sua firma sull’editoriale.

Fu un clamoroso e dissacrante ribaltamento. Tutto nacque dal fatto di trovare così assurda l’ipotesi di Calogero e dei media per cui sarebbe stato Negri il capo delle Br, che a qualcuno scappò detto che a quel punto poteva esserlo anche Tognazzi. Il quale, provocatore com’era, stette al gioco, ma fu molto stupito scoprendo che molta gente ci aveva creduto davvero e che molti altri si indignavano per uno scherzo giudicato di cattivo gusto. Rispose alle polemiche scimmiottando il lessico dei terroristi: “Rivendico il diritto alla cazzata”. Poi tornò a scherzarci sopra in tivù con Pippo Baudo, quando invece di rispondere alle domande sul suo nuovo film ribatté “perché non parliamo di Toni Negri? Mica per altro, ma un bel giorno bisognerà chiarire se il capo delle Brigate rosse è lui o sono io…”.

Nella ‘teoria’ del Grande Vecchio – come in ogni romanzetto d’appendice che si rispetti – a un certo punto finiamo a Parigi: più precisamente alla fantomatica scuola Hyperion in Quai de la Tournelle 27, tra la Senna e Boulevard Saint-Germain. Era la scuola di lingue di Corrado Simioni, ex socialista passato al ‘Superclan’ che nel 1970 si sarebbe separato dalle nascenti Br di Renato Curcio. D’altronde Parigi ospitò molti terroristi o presunti tali provenienti dall’Italia, anche prima che la dottrina Mitterrand ne impedisse l’estradizione. Ma cosa c’entrava Hyperion?

Già Calogero, prima di Craxi, era convinto che la “centrale” dell’eversione fosse a Parigi. Anche Giulio Andreotti aveva sostenuto la stessa tesi nel 1974, e a Parigi chi aveva partecipato alla lotta armata godeva di una certa protezione e poteva cercare di rifarsi una vita. L’identificazione di Hyperion come “camera di compensazione” – in cui gli opposti interessi dei servizi segreti occidentali e del blocco sovietico in qualche modo confluivano e sfociavano nell’azione delle Br, manovrando Moretti – nasce con l’identikit del Grande Vecchio fatta da Craxi, cucita alla perfezione su Simioni; e poi c’è il fatto che lo stesso Simioni aveva avuto un ruolo importante nella prima fase del terrorismo rosso con la breve esperienza del Superclan, e che per anni non si era più saputo nulla di lui e dei suoi compagni. Ma il contributo fondamentale viene dalle testimonianze di alcuni brigatisti, in particolare Alberto Franceschini.

Franceschini contribuì in effetti molto all’impostura del Grande Vecchio. Perché?

In molti riteniamo che la versione complottista fornita da Franceschini dopo l’uscita dal carcere sia in qualche misura autoassolutoria: gli permetteva di ripulire la sua immagine e mantenere visibilità separando le prime, ‘pure’ Br – che fecero soprattutto azioni dimostrative e commisero un solo omicidio non premeditato – da quelle successive al 1975, quando lo stesso Franceschini era già in carcere. Una storia che identifica in Moretti un infiltrato, nonostante ci siano prove incontrovertibili che smentiscono questa tesi, mentre è un fatto che dal carcere Franceschini abbia esplicitamente appoggiato tutte le azioni delle ‘seconde’ Br.

In che misura l’idea del Grande Vecchio è stata specularmente influenzata dall’immagine dello stragismo di destra, che vedeva effettivamente coinvolti apparati dello Stato? Già nel 1974 Pasolini scrisse il famoso “Io so”, un articolo sul Corriere della Sera in cui chiamava in causa l’intera classe politica italiana e sosteneva di conoscere i vertici occulti del terrorismo nero, pur non avendo prove sufficienti per fare i nomi.

Osserviamo in effetti una tendenza a identificare una regia occulta anche a destra, anche se pure in questo caso la questione è complessa: non ci fu neanche lì una cosiddetta ‘eterodirezione’, ma parti dello Stato – lo spiegherà successivamente anche Pasolini – e dei servizi segreti che spingendo verso derive autoritarie tolleravano un certo ambiente e cercarono poi di insabbiare le prove. Ma non significa che lo Stato fosse in qualche misura il mandante occulto di stragi come quella di Piazza Fontana.

Tornando a sinistra, nella teoria del complotto svetta il ruolo degli Usa. Un po’ perché gli yankee erano il nemico dei comunisti, un po’ perché erano effettivamente molto invadenti. Inoltre ci misero del loro: fu un bislacco psichiatra spedito da Washington per collaborare alla soluzione del sequestro Moro – il futuro complottista sull’Undici settembre e No Vax Steve Pieczenik – ad accennare a sua volta al Grande Vecchio.

Pieczenik è un personaggio difficile da inquadrare, con esperienza nella liberazione di ostaggi e nella guerra psicologica. Ingigantirà poi il suo ruolo, assolutamente marginale, e parlando di Grande Vecchio potrebbe avere influenzato Craxi, ma non ne siamo sicuri. Certo, ad alcuni esponenti del Pci (come il senatore Sergio Flamigni, autore del fragilissimo ma popolare ‘La tela del ragno’, ndr) fece poi comodo attribuire il rapimento a un complotto tra Cia, loggia massonica P2 e servizi italiani per far fallire il compromesso storico. Che in realtà fu bocciato dagli elettori, soprattutto del Pci, mentre il sequestro Moro semmai lo accelerò, col sostegno esterno comunista al governo Andreotti.

I processi – pur per loro natura insufficienti a esaurire la verità ‘storica’ e penalizzati dal silenzio dei brigatisti in aula – confermano quanto dichiarato dal magistrato Nicolò Amato: quello del Grande Vecchio è solo ”un mito con cui diamo corpo ai nostri timori”. Cosa ci insegna questa storia rispetto alle molte teorie del complotto più recenti?

Come notava Umberto Eco in una sua lectio magistralis del 2015, la molla che porta alla nascita di certe tesi è sempre la stessa: voler credere a qualcosa di diverso da ciò in cui credono gli altri per affermare la propria libertà e per sentirsi anticonformisti, più furbi, più liberi. Questo fa il paio con il rifiuto di qualsiasi smentita. E come dice Eco citando Georg Simmel, più il presunto segreto che verrebbe tenuto nascosto al popolo è vuoto, più è refrattario alle smentite.

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