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Io ne ho viste cose che voi androidi...

‘Ma gli androidi sognano pecore elettriche?’ è il libro di Philip K. Dick che ispirò ‘Blade Runner’ di Ridley Scott (più distopico di così...)

Nella prima edizione italiana era ‘Il cacciatore di androidi’

Sembra seriamente preoccupato Geoffrey Hinton. Certo lo è perché l'ha detto lui stesso ed è un signore che non ispira diffidenza. Pensiamo ai professionisti dell'intelligenza artificiale come a ridenti e sportivi cinquantenni. Quelli in realtà sono i venditori dell'intelligenza artificiale. Geoffrey Hinton è un signore di 75 anni in giacca e cravatta, angustiato da tre o quattro anni anche se non lo diceva. Lo deduco un poco arbitrariamente dalla foto apparsa su ‘La Vanguardia’ di martedì. La didascalia dice: "Geoffrey Hinton a un evento tenuto a Toronto nel 2019". Cammina torcendosi le mani, lo sguardo assente. Un altro signore, accanto a lui, lo guarda preoccupato. Hinton lascia Google, "pentito per la forma in cui questa tecnologia possa essere utilizzata per far del male". La sintassi è contorta ma il pentimento è reale ed è suo: si sente in colpa per aver partecipato in modo decisivo allo sviluppo "delle reti neuronali profonde". E che il "male" lo facciano gli altri non lo tranquillizza. La risposta per tacitare la coscienza è "la solita", ammette, e inutile: "Se non lo facevo io l'avrebbe fatto un altro". Lascia Google per esser libero di dedicarsi al mettere in guardia dai pericoli dell'I.A. Prevede un'invasione di foto e video falsi che la maggior parte delle persone non saprà riconoscere, non essendo più "in grado di comprendere cosa è falso e cosa è vero". Ma prevede peggio: che forme di I.A. non solo generino il proprio codice di programmazione ma decidano di metterlo in atto. Cosa voglia dire, nessuno lo sa meglio di lui.

"Se la nostra azienda non avesse prodotto questi tipi sempre più simili all'uomo, li avrebbero prodotti altre aziende", dice Eldon Rosen a Rick Deckard, cacciatore di androidi, in ‘Ma gli androidi sognano pecore elettriche?’ di Philip K. Dick. Deckard si trova là per verificare se un certo numero di individui che gli saranno sottoposti sono umani o umanoidi. Ma invita la nipote di Rosen, Rachael, a sedersi per qualche minuto, comincerà da lei giusto per prova. Le rivolge una serie di domande per valutare la sua capacità di empatia. Il fascio di luce puntato sull'occhio ne rivelerà i movimenti minimi, la ventosa sensoriale applicata alla guancia, le reazioni dell'epidermide. E Rachael si rivela un androide. In teoria dovrebbe "ritirarlo", ma non lo fa. Un passo indietro ci dirà che gli i robot umanoidi sono prodotti in serie per servire gli uomini. Dall'ennesima guerra di cui nessuno più ricorda nulla - data, durata, vinti o vincitori - salvo che la terra ora è quasi invivibile per polveri e piogge radioattive, il governo esorta a emigrare sui pianeti colonizzati. Si concederà al migrante il possesso di un androide. Alcuni di essi sono tornati sulla terra e si confondono con gli umani in modo indistinguibile.

C‘è qualcosa del western negli incontri degli esseri che si aggirano per le pagine del romanzo, e più ancora nei silenzi e negli sguardi, nell'occultare il proprio pensiero o nel parere di farlo, che è lo stesso. Niente è ciò che sembra. Spariti quasi tutti gli animali, gli umani possiedono animali artificiali, anche questi indistinguibili. Rick ha una pecora elettrica, sogna una civetta vera e comprerà una capra nubiana, forse vera. Certo la paga per vera, tremila dollari solo l'anticipo. Dove appare l'umano, in tanta aridità? Se sei sicuro che un androide è un androide, lo elimini. Se hai un minimo dubbio che sia un umano, cosa fai? L'essere umano poi, capace di empatia, anche se cacciatore di taglie come Rick, rischia di provarla anche per un androide, diventando attaccabile. Ulteriore complicazione: alcuni androidi si credono umani in totale buona fede, come l'altro cacciatore Phil Resch, o così sembra. Lasciamo qui Rick, poco dopo aver salutato Phil Resch. "Ritirati" tre androidi in un giorno solo a colpi di laser, è tornato a casa. Ma il capo lo chiama per dirgli la posizione di altri tre, forse gli ultimi. Se non interviene subito potrebbero fuggire.

Scrivere di fantascienza, che così spesso è scrivere distopie, è tanto più difficile quanto più vai in profondità. Le missioni nello spazio diventano immersioni nel profondo, sede di quanto abbiamo di più prezioso e di più innominabile, di più vulnerabile forse e di più saldo. Philip K. Dick non ha rinunciato a nessuno di quei viaggi e li ha pagati tutti, a giudicare dalla sua vita. Le radure di umorismo, come accade in Bradbury, sono il compenso necessario – e la dote maggiore, che si può chiamare grazia senza timore di esagerare – per uscirne il meno malconci possibile. Anche leggere fantascienza dunque diventa da qualche anno o qualche mese un po’ più sconcertante. Ho ancora trecento battute e se non le avessi mi fermerei qui. Li ho visti tutti: il team originario e attuale di Google, Microsoft, IBM, Tesla, Alphabet... Uno per uno, centinaia di foto. Non ho trovato androidi sospetti. Solo quelli che conosciamo tutti, per cui appunto è sufficiente la faccia (e il nome): Mark Zuckerberg ed Elon Musk.

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