Otium

La retrospettiva e la celebrazione

Dalla mostra sull’opera dello storico dell’architettura André Corboz, alle novanta candeline spente nei giorni scorsi dalla Rsi

Visioni e comunicazioni

Pubblichiamo contenuti da ‘Otium’, pagina culturale a scadenza mensile

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André Corboz: il metodo del discorso

di Bernard Zumthor, storico dell’architettura

Tra novembre e febbraio 2023 si è tenuta al Teatro dell’Architettura di Mendrisio una importante retrospettiva sull’opera dello storico dell’architettura André Corboz (Ginevra 1928-2012). Intitolata Il territorio come palinsesto: l’eredità di André Corboz, la mostra ha accompagnato l’importante lascito dei fondi archivistici di Corboz e della sua biblioteca all’Accademia di Mendrisio, avvenuta nel decennale della morte dell’architetto ginevrino e su cui si è soffermata Clara Storti su questo giornale il 22 novembre 2022.

Ma chi è stato André Corboz? Nato nel 1920 e morto il 4 giugno del 2012, lo storico ginevrino fa inizialmente studi di diritto approdando al Dipartimento federale degli interni, per diventare poi segretario generale dell’Università. Ma fin da giovane, aveva dato prova di una curiosità intellettuale che l’aveva portato, nelle arti come nelle scienze, a scegliere, come diceva, da autodidatta, piuttosto il “sentiero del contrabbandiere” che le vie del conformismo accademico. Ad aprirgli gli orizzonti fu, nei primi anni Cinquanta, la lettura del libro di Bruno Zevi, Saper vedere l’archittettura, àmbito che non smetterà di indagare poi con fervore in merito alla città e al territorio. Dagli anni Cinquanta in poi, Corboz pubblicherà libri e monografie in tutta Europa e negli Stati Uniti. Del 1968 è l’Invention de Carouge 1772-1792, vero primo opus magnum, poi seguito da un Haut Moyen-Age (1970) e dal magistrale Canaletto. Una Venezia immaginaria (1984), che gli varrà il dottorato all’Università di Grenoble. Dal 1967 al 1993, insegnerà storia dell’architettura e dell’urbanismo alle università di Montréal e del Québec, poi alla Scuola politecnica federale di Zurigo. Seguono due lunghi soggiorni di ricerca al Getty Center for the history of Art di Los Angeles.

Nella diversità dell’opera di Corboz, presto riconosciuta internazionalmente, che dalla poesia si estende alla scienza, alla storia, alla fotografia, importa qui l’interesse per una metodologia della storia dell’arte e del territorio che rifiuta di considerare isolatamente fenomeni, in questi ambiti chiaramente sistemici. Il costante interrogarsi sull’oggetto della ricerca, ha in Corboz una triplice base epistemologica. Seguendo il principio di tecnicità del filosofo della scienza svizzero Ferdinand Gonseth, oggi relativamente dimenticato, Corboz ritiene anzitutto che l’oggetto di studio contiene in sé la chiave della ricerca: ogni conoscenza scientifica si struttura infatti non solo in base all’oggetto che studia, ma anche al modo di avvicinarlo. Secondariamente, il ricercatore dev’essere pronto davanti agli imprevisti della ricerca: deve pensare in modo “in-disciplinato” coniugando ambiti diversi di ricerca con istinto soggettivo e procedimento logico. Un procedimento che contiene in sé la nozione di “reversibilità” di ogni conoscenza, anch’essa derivata da Gonseth, e che ammette un processo di conoscenza che contiene il rischio dell’errore. Dai due primi punti, Corboz derivava poi una temporanea identificazione del ricercatore con l’oggetto, tenendo insieme ricerca e introspezione.

Corboz rifiutava la tradizione positivista della ricerca fino allo strutturalismo compreso. L’idea che un sapere acquisito (una modalità preconcetta) potesse determinare il ricercatore gli era estranea. Concepiva il lavoro come una “erranza”, che allargando il perimetro delle investigazioni perveniva, oltre l’evidenza, a ciò che non cercava. In tal modo, Corboz rinnovava per esempio la comprensione dell’ambiente e del territorio, che intendeva come il “risultato di una condensazione”. Il significato del territorio risulta da una dialettica profondità/estensione’: per esempio, dalla geologia dei sostrati storici che, come testi successivi in un palinsesto, non si cancellano mai definitamente; o dalla mappa delle diverse strutture socio-economiche che lo hanno caratterizzato nel tempo e che lo storico ginevrino paragona a un ipertesto. Esemplari di questo nuovo approccio sono da una parte l’idea di territorio come ipercittà (per es. la Svizzera) e dall’altro gli studi dei suoi ultimi anni sullo spazio americano. Il patrimonio culturale entra in pieno in questa riflessione. La nozione di palinsesto applicata al territorio comporta l’invito a preservare le tracce delle sistemazioni urbane o paesaggistiche che si sono succedute nei secoli e che pone il problema del riutilizzo del patrimonio, garanzia tanto di una riqualificazione del territorio contemporaneo quanto della memoria che dei luoghi deve restare viva. In questo senso, le lezioni di Corboz sulla forma e il senso delle cose, del tempo e dello spazio, restano di una sicura attualità.

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‘90 anni di voci italofone’

di Nelly Valsangiacomo, storica

In questi giorni la Radio svizzera di lingua italiana (Rsi) festeggia 90 anni. Le prime timide prove indirizzate alle persone abbonate al radiotelefono si fecero nel maggio 1932. Dalla Posta centrale di Lugano, la radio si spostò allo studio del Campo Marzio un anno dopo, con l’inaugurazione dell’impianto nazionale del Monte Ceneri; poi nello stabile di Besso, nel 1962. A poco più di 50 anni di distanza, il prossimo trasferimento a Comano. Dal centro alla periferia, insomma, sperando che non sia la metafora del destino di un medium che ha saputo velocemente integrare la quotidianità delle persone e al contempo forgiare e adeguarsi alle loro abitudini.

Da una a molte voci

Dapprima fu un ascolto collettivo, quasi religioso, attorno al mobile che aveva soppiantato le pionieristiche radio a galena degli anni venti; poi la radio ritmò le giornate, con la musica, la serialità delle trasmissioni, i momenti chiave, come gli spazi informativi e di servizio. “Al terzo tocco saranno esattamente…”, il segnale di Neuchâtel rimpiazzò le campane in un mondo che ormai non poteva perdere più nemmeno un secondo e il bollettino meteo divenne presto un momento imperdibile, dapprima per una popolazione ancora in buona parte contadina e poi per le generazioni che vivranno di turismo.

Con il transistor e le batterie, dalla metà degli anni Cinquanta, la radio si moltiplicò e divenne mobile: la si ascoltava ormai in bagno, durante un picnic, in automobile. Sempre più alla mattina, mentre la televisione fu ben presto il totem attorno al quale sedeva la famiglia la sera. E si scriveva alla radio, per esprimere le proprie richieste e le proprie opinioni.

Poi l’avvento del digitale, e il consumo del medium si trasforma. La radio, quando è via web, si ascolta su un apparecchio multiuso, un terminale che permette nello stesso momento di consultare la griglia dei programmi, accedere al replay, parlare, (troppo) spesso di sé, alle trasmissioni di contatto (e l’insulto a chi smista le telefonate è moneta corrente). Presto, immagino, cuoceremo anche le uova strapazzate direttamente sullo schermo del telefonino dal quale già ammiccano, con un sorriso contrattuale, animatrici e animatori incorniciati dalle cuffie.

La radio e Guglielmo Tell

Anche la Rsi si è adeguata a tutti questi cambiamenti, ampliando le trasmissioni, diluendo il pubblico su tre reti, con la terza nata nel 1988, cinque anni dopo la fine del monopolio. Ma se l’evoluzione tecnologica influenza tutta la radiofonia, ogni stazione radio è speciale. Cosa dunque vale la pena ricordare della Rsi in queste poche righe? Azzardo qualche pista. Dapprima il territorio. La Rsi nacque a seguito della creazione della Società svizzera di radiodiffusione (Ssr) nel 1931, quando la Confederazione accantonò i vari tentativi locali e permise così alla Svizzera italiana di avere un’istituzione culturale nazionale di valore. L’idea era che questo nuovo mezzo dovesse servire tutti i cantoni veicolando contenuti di alta qualità nelle lingue nazionali. Da qui, la suddivisione della tassa di concessione, l’odierno canone, in maniera più equa e non in base ai bacini di ascolto.

Si ricorda spesso, con un certo compiacimento, il ruolo di radio italofona “libera” durante gli anni del regime fascista e del secondo conflitto mondiale; vorrei qui piuttosto insistere su ciò che la Rsi, come le altre consorelle, ha compiuto per mettere in relazione il territorio elvetico, poiché la radio ha certamente portato per prima il mondo nelle case, ma il mandato di servizio pubblico l’ha soprattutto sollecitata a far conoscere il resto del Paese in tutte le sue sfaccettature, sociali, culturali e politiche; a portare le orecchie della Svizzera italiana oltre i suoi confini; a creare in alcuni frangenti solidarietà interregionali. In fondo, lungo il Novecento, ha contato più Guglielmo Tell o la radio nella costruzione di un’identità nazionale

Superare l’ombelico del mondo per rimanere se stessi

La radio ha la vocazione di superare le frontiere e anche la diffusione della Rsi è una storia di frontiere valicate. Agli albori, ebbe più agio a giungere in Italia che nelle locali valli discoste e solo negli anni novanta del secolo scorso emise Oltregottardo. Da Radio della Svizzera italiana a Radio Svizzera di lingua italiana, dunque. Una modifica del nome che ribadisce come la Rsi non dovrebbe essere solo una radio locale.

Non si trattò però solo di onde. Sulla scorta di abitudini culturali ben ancorate nella regione, la Rsi poté professionalizzarsi velocemente proprio perché intuì l’importanza di aprirsi alle collaborazioni con i mondi vicini. Ciò le consentì di sviluppare generi radiofonici specifici, quali il radioteatro, di ampliare le offerte musicali, di attingere a esperienze radiofoniche più consolidate; soprattutto le permise di sperimentare, un verbo che invita a osare, ad aprire gli orizzonti, a scansare il semplicismo.

L’apporto delle donne e degli uomini di cultura giunti dall’Italia sin dagli anni Trenta va in particolar modo riconosciuto, poiché permisero di dare più senso e più contenuto anche all’idea di italianità. Un italianità che la Rsi declinò però da subito tenendo presente, senza alcun senso di inferiorità, le specificità e le ricchezze della Svizzera italiana: si pensi, tra i molti aspetti, all’uso del dialetto nelle trasmissioni.

A microfoni spenti

Tutto rose e fiori dunque? No, certo, né ieri, né oggi. A sottolineare però l’importanza del mezzo radiofonico, si cominciò subito a discuterne animatamente le funzioni. Tra gli argomenti che alimentarono e alimentano tuttora i vivaci confronti, un’impostazione della radio troppo convenzionale e dominante per alcuni gruppi e troppo poco per altri. Non sempre la Rsi fu ed è all’altezza nelle risposte. La politica fu ed è altresì particolarmente pressante sul servizio pubblico. E allora vale la pena ricordare che quest’anno cade un altro anniversario. Nel 1963 si tenne il primo ciclo di dibattiti radiofonici alla Rsi in occasione delle elezioni cantonali. Per lungo tempo, infatti, era parso inopportuno parlare di politica alla radio; tra le altre giustificazioni, si temeva la semplificazione e la banalizzazione dei temi. A sessant’anni di distanza e a elezioni cantonali appena concluse, mondo politico e giornalismo ticinesi, i due grandi comunicatori sociali, si sono ritrovati parlando di p(i)attume del dibattito. Magari basterebbe che gli uni avessero meno paura delle domande complesse e gli altri meno paura di porle; insomma, che ognuno si decidesse finalmente ad assumere pienamente il suo ruolo, perché la radio, come tutti gli altri media, continui ad avere il giusto e fondamentale peso in una società democratica. Ma questo è meglio dirlo a microfoni spenti.

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