laR+ Il ricordo

Nessun crollo, grandi alberi, silenzio    

Il 6 aprile del 2009, il terremoto. Diario di sette giorni a Tempèra, frazione de l’Aquila

L’Aquila, 6 aprile 2009
(Keystone)

Troviamo un militare all’ingresso del campo. Nella stanchezza facciamo caso solo al militare che chiama qualcuno e dice che siamo arrivati… Dico ciò che vedo, che sento, anche in questo diario scritto al ritorno. Quanto a maggiori ricerche, decido subito di non farle. Dall’esperienza di pochi giorni ho imparato che quello che si legge sui giornali, nei vari siti web, al confronto dello stare qui e vedere risulta tutto falso. Anche quello che è vero. Vorrei poter fare in modo che anche queste pagine risultino meno false possibile.

Il colore del campo è il blu, il blu delle tende. Poi è il verde delle campagne intorno e il bianco delle montagne se alzi la testa, così vicine. A metà settimana nevica di nuovo e si vedono le cime delle montagne bianche. Tutte le tende hanno delle piccole stufe. Ho sentito parlar male di queste tende e io non so giudicare. Si dovrà vedere quando è troppo freddo o troppo caldo. Oggi ho letto che quando la temperatura fuori è di 27 gradi, dentro sono 37. La cosa più probabile e più bella è che ognuna di queste tende, tutte uguali, vada sempre più assomigliando ai suoi occupanti. Un signore rumeno mi ha parlato dei disagi dei vecchi, fisici, morali. Mi ha detto: “Le vecchie stanno davanti alle tende, ma dentro piangono”.

Il colore del campo poi è il grigiobianco della ghiaia. Il verde del tendone della ludoteca, accanto a quello bianco del refettorio. La ludoteca prende forma in questi giorni. Sulla parete di destra tanti libri e giochi per bambini, penne, colori, due tavoli. Di fronte, l’altra uscita. Accanto a questa uscita, tre vecchi videogiochi che risultano essere anche buoni per l’uso di internet. Al centro della parete di sinistra un grande televisore che attrae tre o quattro persone a sera. Poco dopo le sette del mattino, venerdì, sul videogioco traballante sento la prima scossa da che sono qua.


Keystone
Il colore del campo è il blu, il blu delle tende

Arrivando, in macchina, il timore di scoprirsi a ridere per qualcosa, scherzare. Mi chiedo quale comportamento tenere. Parlando, chiedendo, dove fermarsi per non ferire. La preoccupazione forse è eccessiva. Ognuno ride o scherza naturalmente, su uno sfondo un po’ mesto o distratto. Un giorno, però, allo spaccio dove distribuiamo alimenti, vestiti, un signore racconta che con la scossa gli è caduta una bottiglia di Fernet appena cominciata. Quando mi avvicino, poco dopo, gli dico: “Così, giusto quella bottiglia appena iniziata…?”. Mi risponde sorridendo appena, dicendo che non solo quella bottiglia, tutte. Dice qualche altra parola calmo, ma già senza sorridere più.

A tre settimane dalle scosse più forti la vita nei campi si organizza sempre di più di giorno in giorno. Un giorno vedi qualche antenna per i televisori, poi altre. Oggi arriva un altro bagno, cioè finalmente un’altra doccia. Più ghiaia per non affondare se piove. Nel campetto dei giochi non ci sono giochi, perché in un campo di sfollati sono quelli che non si giocavano più: rubabandiera, palla avvelenata, altri che non conosco di corse, prese e cadute. La televisione della ludoteca si guarda senza attenzione, dopo la cena, parlando, mentre il signore che ci si piazza sotto, ogni sera, col computer portatile, commenta le notizie che legge o le e-mail dall’Australia. In sette giorni ho visto due cose in televisione: cinque minuti di ‘Ballarò’ e mezzo film di Bud Spencer e Terence Hill. I ghigni degli ospiti di ‘Ballarò’ appaiono, da qui, finti fino al fastidio fisico. Umilianti. Ho detto ghigni volendo dire semplicemente facce. Truccati come soubrette (come ho fatto a non accorgermene, prima?), il presentatore, gli ospiti mandano avanti il teatrino che interessa a loro e a mezzo milione di italiani, forse, una volta a settimana.

Mi accorgo che scrivo poco delle persone. La donna che arriva di corsa e dice che vive nella tenda ma davanti a casa. Dice che la figlia ha perso la memoria, balbetta. Al momento della scossa la ragazza, la figlia, si è vista la nonna in cima alle scale che le diceva di uscire, di scappare. Alcuni, vicini o parenti, si organizzano in uno spiazzo vicino alle case, non vogliono andare nelle tendopoli. Si raggruppano con qualche tenda e insieme roulotte, camper. Andando in macchina al campo di San Biagio si vede uno di questi piccoli agglomerati, con un cane lupo che gira. Altri si stanno facendo la casetta di legno da soli. Un signore se l’è fatta in otto giorni con il suocero. A due strati, col vetro-resina in mezzo. In situazioni straordinarie come questa le persone più che altro dicono cose ordinarie, e senti che è bene così. A parte i bambini che dicono cose incredibili costantemente.


Keystone
‘Le vecchie stanno davanti alle tende, ma dentro piangono’

Gli animali del campo di San Biagio sono i galli, le galline, le pecore, che vivono oltre il recinto. Sono anche le gazze. Scivolano tra le tende, ci planano sopra, con uno sterpo in bocca per fare il nido, e se ci sei dentro le senti. Non hanno paura e non volano via. E poi c’è Gerry che chiamano Walter, non so perché. Forse perché da che ci sono i volontari non è più quello di prima. Ha lo sguardo triste, sta alla catena lunga quattro metri, ma non per tutto il giorno. Fa delle grandi corse con uno dietro attaccato al guinzaglio troppo corto. Tira e ansima. Salta quando vede un pallone saltare. Si è detto che nessuno ha pensato agli animali, in questo terremoto, che si sono trascurati per settimane. Walter è nerissimo e triste e fa le feste a tutti. E da una ventina di giorni forse non è più triste.

Si va verso Onna per strade che passano per i campi. A vedere i paesi dalla strada non ne hai un’idea di distruzione. È diverso se ci passi in mezzo. Ripensavo all’indicazione chiesta appena arrivati a Tempèra, cercando il campo di San Biagio. Uno dei signori ci ha risposto: “Per di là la strada è più lunga, per qua passate in mezzo al paese, ma ve la sentite?”. Non so se lo dicesse per il timore di nuove scosse o per lo spettacolo che ci aspettava. A Onna non ci arriviamo veramente, la sfioriamo.

Lasciamo la macchina di qua da un ponte, ci avviamo a piedi passando il ponte. L’aria è come di un giorno festivo, per i silenzi, per i suoni della natura: il ruscello, i fischi degli uccelli. Grandi alberi di cui non conosco il nome. E del paese mi resta quest’idea: nessun crollo, sole, grandi alberi, silenzio, un ponte che si esita a passare. Le case in lontananza.

Ho cercato l’origine del toponimo Onna, ma non l’ho trovata. Se si potesse costringere questo terremoto in tre o quattro parole simboliche, che lo rendessero unico tra le altre calamità simili, ci sarebbe questa, che non sappiamo che vuol dire.


Keystone
L’Aquila, 6 aprile 2009

Scendo per la seconda volta dentro Tempèra. Segni di vita solo alla fine del paese: una donna che va dal garage alla porta di casa, un uomo che si avvia col bastone. Dentro il paese, un ponticello di legno fatto in questi giorni, giusto davanti al crollo più impressionante: una casa venuta giù per metà, lungo la diagonale. In alto, il quadro della Madonna col Bambino nella camera da letto; un materasso tra le macerie. Prima e dopo questa casa, altri crolli ma anche tante case che sembrano integre. All’inizio del percorso c’era una casa come sbucciata, con gli infissi crollati sulla ringhiera del balcone.

Non aver voluto fare i nomi, in queste note, è stato penoso. Ma al tempo stesso è venuto naturale e quasi senza pensarci. Forse potevo ma mi pareva che non dovessi. È come se una tragedia debba essere impersonale, forse. Una cosa che succede agli uomini, alle donne, prima dei nomi. Al tempo stesso, la necessità dell’individualità e dei nomi, innegabile. Per esempio D. e L., i due bambini che vedevo arrivare con i genitori, allo spaccio. Tutti e due di poco più che un anno, giusto in tempo per camminare. Tutti e due silenziosi. D. che prendeva una caramella dal piattino, all’ingresso, poi faceva un giro del capannone, passava davanti al tavolo e la rimetteva nel piattino. D. è una bambina, L. è un bambino, entrambi stranieri per metà.

Con loro, pensando ai loro due silenzi, lascio in queste ultime due righe tutto quello che non ho detto, perché non mi è tornato in mente, perché non l’ho capito.

(maggio 2009)


Keystone
L’Aquila, 6 aprile 2009

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