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Renato Martinoni, la letteratura come specchio della realtà

Felice di essere tornato nel Ticino che ama, ma con ricordi vivi di Genova, fino alla ‘dolce e meravigliosa malinconia di Venezia’.

Renato Martinoni
(Ti-Press)
18 ottobre 2022
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Siamo particolarmente lieti di intervistare Renato Martinoni, accademico, filologo e scrittore, nato a Muralto nel 1952, che giovedì 20 ottobre compie 70 anni. Laureatosi in Letteratura e linguistica italiana e francese presso l’Università di Zurigo, dal 1978 al 1992 ha insegnato al Politecnico federale di Zurigo e alle Università di Zurigo e di Losanna. Dal 1992 al 2018 è stato ordinario di Letteratura italiana all’Università di San Gallo di cui, dal 2018, è professore emerito. È stato anche visiting professor a Venezia. Ha assunto molti incarichi istituzionali e rivestito varie funzioni, per esempio come consigliere centrale della Società Dante Alighieri a Roma dal 1994 al 2016, come membro del consiglio direttivo di Pro Helvetia dal 1996 al 2005 o come presidente del Collegium Romanicum, la società svizzera degli studiosi di lingue e letterature romanze, dal 2001 al 2005. Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica italiana, è inoltre direttore artistico di FestivaLLibro, fiera libraria associata al Locarno Film Festival. Il prof. Martinoni è infine attivo anche nella scrittura creativa. Il suo romanzo più recente, La campana di Marbach, uscito da Guanda nel 2020, è dedicato alla figura del pittore Antonio Ligabue.

La sua è stata ed è una vita dedicata alla letteratura. Era questo che sognava di fare da giovane?

Da ragazzo sognavo di diventare ingegnere aeronautico. Ma poi, modestamente, ho scelto la strada più vicina al mio carattere e ai miei interessi.

Com’è stato studiare due lingue romanze in un contesto germanofono? Perché non ha scelto un ateneo in Italia o in Francia?

L’università di Zurigo aveva un lato positivo e uno negativo. Quello positivo era la grande tradizione degli studi tedeschi, anche nell’ambito della letteratura e della linguistica italiana e francese. Sono però arrivato in anni in cui, accanto a veri e propri maestri, erano approdati docenti giovani, poco esperti, troppo spesso incantati dalle mode. Ho seguito solo i corsi di chi insegnava i metodi e i contenuti. Finita l’Università ho continuato gli studi in Italia, in particolare a Genova.

Vivere e respirare ogni giorno la letteratura è un’attività di sicuro entusiasmante, ma non si rischia di perdere il contatto con la realtà?

Dipende da cosa si intende per letteratura. C’è chi la confonde con il bello, o come una fuga, e chi la vede come uno specchio della realtà e come strumento per capire la complessità delle cose. Ho sempre evitato la prima strada, perseguendo la seconda.

Qual è il periodo letterario che trova più affascinante? Ci sono ambiti che le piacerebbe ancora esplorare?

Non ci sono periodi più belli o meno belli. Dipende da tante cose e dai gusti. Mi piace molto il barocco (più la pittura che la poesia), il Settecento razionalista, con la sua voglia di conoscere, e il Novecento. Ma amo anche la letteratura di viaggio. Mi interessa la scrittura che sa attraversare i confini, non quella che esalta i valori nazionali. Di progetti ne avrei tanti: lavorando nascono sempre nuove idee. Il tempo che resta, ahimè, è poco...

A cosa serve la letteratura in un mondo moderno altamente tecnicizzato come il nostro?

A correggere l’illusione che la tecnologia possa diventare padrona di un mondo ipertecnologico, o sostituirsi a tutto, senza più badare ai sentimenti e ai bisogni reali dell’uomo. Serve a mantenere la coscienza del nostro essere individui. Siamo persone, non macchine. Siamo dei bipedi, non i supereroi dei cartoni animati e neanche gli eroi di carta dei social.

Se dovesse fare un breve elenco degli autori secondo lei più importanti, chi includerebbe?

Lo scrittore francese cinquecentesco Michel de Montaigne, per la sua saggezza, il suo scetticismo e il suo senso critico; i viaggiatori e gli esploratori, da Goethe a Darwin, che hanno descritto le loro esperienze; poeti maledetti (dagli altri e dalla vita) come Dino Campana, morto in manicomio.

Cosa pensa della cancel culture? È giusto giudicare il passato alla luce delle sensibilità odierne? In Minnesota si è arrivati a censurare due romanzi, ‘Il buio oltre la siepe’ di Harper Lee e ‘Le avventure di Huckleberry Finn’ di Mark Twain perché contengono il termine ‘negro’.

La cancel culture è l’ignoranza più becera mascherata da buonismo. È una nuova forma di Inquisizione, all’americana. C’è forse un mondo peggiore del nostro, fatto di false notizie, di insulti quotidiani, di televisioni che mettono il megafono davanti ai fanfaroni? Non è cancellando la storia che si rende giustizia. Quando si parla di eventi del passato, bisogna innanzitutto inserirli nel loro contesto. E poi la giustizia va fatta sul presente. Se sono stati commessi errori, occorre imparare a evitarli nel tempo in cui viviamo. Altrimenti si spara su chi non può più difendersi. Invece di abbatterli, si vada davanti ai monumenti e si raccontino i fatti spiegandoli, anche quelli brutti. Si ricordi che il tale è stato uno schiavista. Che l’altro si è fatto ricco alle spalle dei miserabili. Ma, prima di andare via, ci si fermi ancora un po’ per ricordare a chi ascolta che lo schiavismo, la discriminazione, la xenofobia esistono ancora oggi, che oggi più di una volta si privano le persone del diritto di cittadinanza, che oramai tutti o quasi si comportano peggio dei barbassori che vediamo scolpiti nelle statue. A distruggere i monumenti ci pensano del resto già i piccioni…

Che impressione ha dei nuovi modi di utilizzare la lingua nati sull’onda dei social media e di Internet?

Realisticamente non posso che prenderne atto. I social sono altoparlanti che moltiplicano tutto: la lingua, i suoi svarioni, le parolacce, il bailamme delle chiacchiere vuote, i pettegolezzi, le ciarlatanerie, la stupidità dilagante, l’illusione di essere padroni del mondo. Se penso invece che la lingua dovrebbe essere uno strumento di libertà, perché permette di dire le cose più personali, e di farlo con precisione, cioè differenziandoci l’uno dall’altro, non posso che concludere che stiamo sempre più diventando esseri privi di indipendenza, che vivono nell’illusione di essere liberi e che invece stanno sprofondando nel fango. Anche con la lingua.

Cosa si potrebbe e dovrebbe fare per migliorare i rapporti tra la Svizzera italiana e la Svizzera d’Oltralpe?

Non ci conosciamo, se non per luoghi comuni. È triste doverlo ripetere, anche dopo decenni di lotte contro l’immagine del boccalino, delle feste canterine e dei grotti. L’ignoranza tra le quattro regioni linguistiche è stratosferica. Rimbocchiamoci le maniche, finché è ancora possibile. Specie nelle scuole. Anche i media potrebbero fare la loro bella parte.

Che cosa le dà maggior soddisfazione nel suo lavoro?

Il fatto che l’ho amato, senza mai sentirmi stanco, e che mi appassiona ogni giorno: oggi come ieri. Non posso fare a meno di leggere e di imparare, anche per combattere l’immane ignoranza in cui continuo a essere immerso.

Nella sua vita c’è stata una svolta particolare?

Credo che ognuno di noi viva delle svolte, di cui si rende conto oppure no. Andare a vivere da un’altra parte, è una svolta importante, fatta com’è di sofferenza, di cambiamenti e di maturazione. Mettere su famiglia, vedere nascere una figlia, giocare con un nipote, perdere una persona cara, sentirsi vecchi all’improvviso, sono tutte delle svolte. L’importante è viverle, non lasciarsi sopraffare.

Ci sono stati ostacoli contro i quali ha dovuto lottare quando abitava nella Svizzera tedesca? Ha l’impressione che la sua diversa lingua e cultura le abbiano impedito di raggiungere certi obiettivi?

Le frontiere, ha osservato un grande esploratore, stanno tutte nella testa delle persone. Detto questo, credo che gli ostacoli più grandi contro i quali ho dovuto lottare siano stati soprattutto di natura personale. Sono impulsivo. Non sopporto l’opportunismo, il camaleontismo, le parolone vuote, le bugie, la mediocrità che sta sotto la vanagloria. Non ho mai accettato compromessi e quando avevo qualcosa da dire l’ho sempre detto. Questo ha fatto sì che la mia vita, anche quella accademica, non sia proprio stata in discesa. Dal punto di vista della lingua e della cultura non ho invece incontrato grandi difficoltà. Ho un ricordo particolarmente bello del periodo trascorso all’Università di San Gallo, dove regna un forte senso di rispetto e di comunità. Insegnare in tandem con professori di facoltà diverse, per esempio di Economia o Diritto, è stata un’esperienza arricchente. Insieme fornivamo agli studenti una visione interdisciplinare su una data problematica permettendo loro di acquisire un forte senso critico e una maggiore profondità di pensiero.

Si considerava integrato quando viveva nella Svizzera oltralpe?

Se per ‘integrato’ si intende una persona che riesce a vivere in un determinato luogo, cercando di mettere delle radici, ma mantenendo un forte senso critico, lo ero allora e lo sono ancora. Mi considero un anarchico con un forte senso dello Stato. Cioè, credo molto nell’ordine, nella serietà, che dev’essere la base di tutto, nell’educazione, nelle istituzioni (assai meno nella maggior parte delle persone che ci lavorano dentro), ma poi tutto questo non deve essere una camicia di forza. Nella Svizzera di lingua tedesca, a volte un po’ dura, ho imparato la serietà e il rigore. Ora sono felice di essere tornato nel Ticino, che amo, pur discostandomi da tanti suoi difetti (il provincialismo, la partigianeria di chi difende a spada tratta i compagni di partito e offende gli avversari). Degli altri posti dove ho vissuto mantengo ricordi molto vivi: della vita intensa nei vicoli di Genova, della dolce e meravigliosa malinconia di Venezia.

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