Il commento

L’amore al tempo del coronavirus

Nei momenti più cupi della storia, quelli della guerra, delle carestie e dei lager, l’amore è riuscito a tenere il filo di un discorso che andasse oltre i fatti compiuti

15 marzo 2020
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Settimana scorsa, poco prima di Giubiasco ai piedi delle montagne che circondano come un anfiteatro l’autostrada, nel cielo terso delle giornate invernali un aliante volava sopra di noi con un moto circolare, lento e continuo. La visione mi riportava al bellissimo romanzo di Daniele Del Giudice, ‘Staccando l’ombra da terra’, dove l’ombra che appare sotto i nostri occhi è quella che viviamo nella quotidianità e nel sogno. È il sentimento dell’apprendere a volare lasciando la terra, superando con attenzione e passione, il limite. È silenzio luminoso, vertigine. Quell’immagine giunta improvvisa dall’alto, testimoniava un avvenimento senza tempo e storia, qualcosa a cui diamo il senso di un’apparizione: gli angeli di Chagall, quelli sopra i tetti di Berlino nel film di Wim Wenders. ‘L’angel’ del poeta FrancoLoi: “Mi el capissi no sé’l vör ‘stu Diu… /El temp l’era li bèll, dèss el gh’è pü…”.

In ogni epoca, nei momenti di crisi le persone guardano il cielo cercando un segno che li possa rassicurare e che consenta di nutrire un po’ di speranza. Gli angeli ribelli e salvifici, caduti e redenti, conoscono le nostre remote paure perché sono state anche le loro. La donna che abbiamo visto girarsi e sorriderci mentre aspettavamo il bus, chi era? Da dove veniva? In alcuni episodi del ‘Decalogo’ di Kieslowski, degli uomini accompagnano silenziosamente quello che sta per compiersi nella vicenda di una persona e che avverrà tra poco, provando tenerezza per la sorte di lui o di lei.

Nei momenti più cupi della storia, quelli della guerra, delle carestie e dei lager, l’amore è riuscito a tenere il filo di un discorso che andasse oltre i fatti compiuti: nelle camerate disperanti, nella traversata sui barconi nel Mediterraneo, nel sacrificio di chi fino alla fine ha cercato di aiutare gli altri durante un terremoto.

Il Coronavirus, come altre malattie infettive, s’innesta invisibile, soggioga il corpo di cui vorremmo essere fedeli custodi e tuttavia nell’era della ‘vita senza fine, illimitata’, quella del culto del fisico, un virus altera tutto diffondendosi con grande rapidità. Il riflesso simbolico dell’infezione cambia nelle diverse epoche, dalla Tbc all’Aids; la prima, ha almeno in parte rivestito un’idea romantica di malattia, pensiamo a Keats e Byron. L’altro, l’idea di peccato, corruzione della carne, dunque il ghetto, la solitudine. Una malattia morale. L’evento, tiene insieme presente e futuro, irrompe nell’oggi e lo stravolge, mette in tensione le certezze. L’evento accade mentre accade, non prima, è l’inatteso che entra nella storia e non abbiamo il tempo per capirne cause ed effetti. Per questo, occorre un salto di qualità nel nostro pensiero, un modo nuovo di pensare l’impensabile lavorando sui paradossi e sulle contraddizioni, fino a rasentare quel margine della ragione che solca la profondità del dolore e della malattia, margine che temiamo in quanto risonanza del vuoto e del perduto.

Il tempo del Coronavirus è un tempo sospeso, qualcosa che ci sfugge perché non possiamo controllare tutto, governarlo, per quanto l’era della tecnica dia questa illusione. In questo senso, enigma è ciò che al pari della sofferenza fisica rende labile il futuro e impossibile il presente. Maurice Blanchot, scrive di un ‘infinito della sofferenza’, di perdita del mondo e ‘abisso del presente’. Da cosa ripartire? Forse dai gesti, dalle parole, perché dentro ogni linguaggio che cerca di uscire dalla nuda e cruda specializzazione c’è al fondo un atto di amore. Lo pratichiamo chiedendo al vicino di casa, come sta; parlando con il nostro meccanico della sua rinnovata officina; scambiando quattro parole con il postino che ogni giorno consegna a noi la posta con qualsiasi tempo. E tornando a dissodare le strutture del pensiero come si usa fare con l’orto di casa, se vogliamo dei buoni frutti.

Il pensiero, per Robert Musil è rivelazione interiore. “Il pensiero non è qualcosa che osservi qualcosa di accaduto interiormente, ma è questo stesso accadere. Non ci mettiamo a pensare su qualcosa ma qualcosa emerge in noi pensante”. Nel profilo della nostra fragilità c’è lo spazio per ritrovare l’apertura infinita dello sguardo nelle cose che possiamo fare e dire ogni giorno. Citando Beckett, “bisogna dire delle parole, intanto che ci sono, bisogna dirle, fino a quando esse non mi dicano, non mi trovino…”. In quel mattino limpido il volo dell’aliante è stato un sogno a occhi aperti capace di dare speranza alla nostra vita, anche se ferita; una scia luminosa che non ci lascia soli.

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