Berlinale

Berlino e il cinema che cambia

Orso d’oro a Mohammad Rasoulof, agli arresti domiciliari in Iran. Riflessioni su di un Festival per il quale restano ancora ampie zone di buio

L’attrice Baran Rasoulof, in nome e per conto del vincitore (Keystone)

Mentre Variety allarma il mondo sui problemi del coronavirus, non solo pensando al prossimo Festival di Cannes ma a tutti i problemi di produzione che con le nuove leggi antivirus stanno bloccando il cinema asiatico, Berlino chiude questa settantesima edizione senza alcun botto, per la felicità degli addetti, che litigano sul senso di ogni film, e per l’infelicità di un mercato che ha bisogno fino al parossismo di un tappeto rosso che questo decennale festival ha provveduto, masochisticamente, a eliminare. Colpa del nuovo direttore? Certamente no, Carlo Chatrian ha tentato quella strada cinephile che ben conosceva da Locarno e qui, nonostante finora i buoni incassi cui non è indifferente un festival, restano ampie zone di buio: la seconda sezione ‘Encounters’, che ha scavalcato il classico ‘Panorama’ per tentare di avvicinare Berlino ai festival di Cannes e Venezia, rispettivamente con ‘Un Certain Regard’ e ‘Orizzonti’, ha mancato l’effetto mediale, essendo state poste le proiezioni allo stesso orario del Concorso ufficiale. Questa mancanza di fiducia poi verso ‘Panorama’, da sempre l’altra sezione del Festival, trova un senso sulla caratterizzazione prettamente omo-lesbo sessuale della sezione, ora monca e inutile, se non per un pubblico enorme di affezionati.

Tra tutti i Festival cinematografici proprio Berlino è il più emblematico politicamente, questo è un problema insormontabile. Non si era trattenuto nel definire la Berlinale una manifestazione meno politica del solito, il nuovo direttore Carlo Chatrian, in realtá le scelte politiche più reazionarie e dure le ha fatte proprio lui, al quale non è bastato limitare ‘Panorama’, ma ha cancellato molto del predecessore Dieter Kosslick, come la ‘Culinary’ e altre sezioni attente ai bisogni di una città come quella Berlino in cui Chatrian cerca di dare un cambio di marcia, rischiando di non essere capito.


Carlo Chatrian (Keystone)

Di questa edizione ci porteremo a casa l’indispensabile rettrospettiva dedicata a King Vidor, un viaggio nel cinema di un uomo che sapeva governare il cinema. Come non ripensare a uno dei film più straordinari prodotti al mondo: ‘The Big Parade’ del 1925 con John Gilbert e Renée Adorée, un film che canta contro ogni guerra in nome della bellezza del mondo; e cosa dire della sua ‘La Bohème’ sempre con il magnifico John Gilbert, uno dei più immensi attori della storia del cinema, e qui con la sublime Lillian Gish; e che dire di ‘The Crowd’, film acclamato dal suo apparire, fondamentale per capire la difficoltà di fare cinema oggi senza una grammatica, senza scuole di recitazione, senza direttori alla fotografia impegnati a celebrarsi. E non parliamo certo di Renato Berta, uno dei pochi esempi di artigiani-artisti dell’immagine in movimento oggi in attività, che qui a Berlino ha dato esemplare lezione in uno dei film più applauditi, ‘Le sel des larmes’ di Philippe Garrel, visto in una competizione capace di interessare i cinephiles ma non i cacciatori di selfie e vecchi autografi. Ma non è questo che forse importa a un grande Festival, e se il maggior divo della manifestazione è Hilary Clinton, c’è qualche domanda da porsi?

Ecco quanto si chiede Berlino, doveva essere in pompa magna il settantesimo compleanno: chi se n’è accorto? Certo, i numeri di pochi giorni fa raccontano di spettatori in crescita, ma noi abbiamo assistito a proiezioni stampa con venti persone all’inizio e quattro alla fine, se non una. Non era mai successo. Certo il pubblico e la critica sono cambiati, con la critica che s’avvicina sempre più pericolosamente al gioco di pancia dello spettatore, ma con che qualità di opinione? Questa Berlinale di passaggio ha posto chiari i problemi che insidiano la vita del cinema oggi. Qui in Germania la progressiva e veloce chiusura delle multisale ha ridato vita al successo delle piccole sale d’essai. È un problema su cui tutta l’industria cinematografica deve porre attenzione e non è un caso l’Oscar a ‘Parasite’ quest’anno. Berlino non è stato capace di cogliere in pieno il messaggio, il pallido direttore si è messo in una maginot di difesa: gli basterà? Intanto a Berlino piove.


Le donne di ‘Sheytan vojud nadarad’ (There Is No Evil) di Mohammad Rasoulof (Keystone)

I premi

Una giuria debole per un buon Concorso. E la Svizzera porta a casa un premio

Era già tutto previsto. La giuria guidata da Jeremy Irons ha voluto lanciare messaggi, in questo senso si legge l’assenza nel palmares berlinese di alcuni dei filn che hanno reso grazie al Festival. Parliamo di ‘Irradiés’ di Rithy Panh, di ‘Rizi’ (Days) di Tsai Ming-Liang, di ‘Schwesterlein’ di Stéphanie Chuat e Véronique Reymond e, soprattutto, di ‘Le sel des larmes’ di Philippe Garrel. Inopinabile l’Orso d’Oro a ‘Sheytan vojud nadarad’ (There Is No Evil) di Mohammad Rasoulof, che al di là del valore del film è un chiaro messaggio al governo iraniano che lo detiene chiuso nel paese. Previsto anche il Gran Premio della Giuria a ‘Never Rarely Sometimes Always’ di Eliza Hittman, un film, già premiato al Sundance che segna un punto per la libertà d’aborto in un paese, gli Stati Uniti, in cui si rema contro le libertà individuali.

Prevedibile anche il Premio per la Miglior regia a Hong Sang-soo per ‘Domangchin yeoja’ (The Woman Who Ran), un film di gran classe con un cast guidato come si conviene. I problemi veri cominciano con i premi spartiti tra i giurati: non meritava certo il premio come miglior attrice la fredda e incolore Paula Beer vista in ‘Undine’ del tedesco berlinese Christian Petzold e neppure l’Elio Germano visto mascherato da Ligabue (il pittore, non il cantante) nel biopic ‘Volevo nascondermi’ di Giorgio Diritti; e se alla prima avremmo preferito la Elle Fanning di ‘The Roads Not Taken’ di Sally Potter, il cui film ha pagato pegno come lo svizzero ‘Schwesterlein’ perché trattano dolorosi temi di malattie mortali, di certo ben più attori maschili sono i protagonisti del film di Tsai Ming-Liang.


I fratelli D’Innocenzo, Orso d'argento per ‘Favolacce’, miglior sceneggiatura originale (Keystone)

Alla Svizzera il premio per la miglior sceneggiatura dei fratelli D’Innocenzo per ‘Favolacce’, strano premio visto che proprio questa sceneggiatura lascia aperte discussioni feroci sul suo senso, cui non hanno risposto neppure i registi in conferenza (la giuria ha capito evidentemente più di loro). Interessante il premio a Jürgen Jürges per la cinematografia di ‘DAU. Natasha’, parte del progetto multimediale di Ilya Khrzhanovskiy e Jekaterina Oertel; lo strano è non aver considerato il gran lavoro di Berta nel film di Garrel, un confronto impietoso per il povero Jürgen Jürges, ma i premi si sa dipendono spesso dalle Giurie non dal valore dei film. Non si spiegerebbe altrimenti il premio speciale per i 70 anni del Festival a un film volgarre e piatto com`è “Effacer l’historique” di Benoît Delépine e Gustave Kervern , un film che è solo brutta televisione. E questo dà la misura di una Giuria che dopo due tre premi necessari ha mostrato la sua pochezza dal punto di vista del linguaggio cinematografico, di una strana arte che si chiama Cinema, un`arte che stavolta si è sentita maltrattata, succede, e ora il circo del cinema si trasferisce a Cannes, ma questa è davvero un`altra storia.

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