Ticino

Un supporto ticinese per curare i disturbi del sonno

Dalla Supsi un progetto per la ricerca sui disturbi del dormire. A capo del team la dottoressa Faraci: ‘I tempi per l’analisi dei dati diminuiranno tra il 50 e l’80%’

31 agosto 2019
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I disturbi del sonno sono un importante e sempre più diffuso problema di salute. Colpiscono una considerevole parte della popolazione mondiale, e i motivi possono essere di ogni sorta. La Scuola universitaria professionale della Svizzera italiana (Supsi) ha raccolto la sfida del progresso tecnologico e di come, soprattutto, rendere questo progresso un supporto concreto e non sostitutivo dell’uomo. Il progetto Sleep physician assistant system (Spas), avviato dal Dipartimento tecnologie innovative della Supsi – in collaborazione con il NeuroTec Center del sitem-insel (Swiss institute for translational and entrepreneurial medicine), lo Sleep-wake-epilepsy-center dell’Inselspital e due aziende attive nei settori MedTech e Data Science –, mira a creare una piattaforma che sia di sostegno e aiuti il lavoro dei medici e degli operatori sanitari occupati nell’ambito delle analisi dei disturbi del sonno. La polisonnografia, ci spiega la dottoressa Francesca Faraci, docente e ricercatrice del Dipartimento tecnologie innovative della Supsi e a capo del team di progetto, «consiste nella registrazione di tutte le fasi del sonno durante una notte, per circa otto ore». Ore nelle quali «una équipe medica misura una serie di parametri fisiologici fondamentali, come l’attività del cervello, i movimenti oculari e degli arti, i livelli di ossigeno, il battito cardiaco e la respirazione». Questi tracciati, rileva, «vengono visualizzati su un computer e per ogni trenta secondi bisogna riconoscere la relativa fase del sonno. Per compiere questo lavoro di visualizzazione e ‘scoring’ ci si può impiegare fino a due ore». L’obiettivo del team è «creare un progetto che non vada a sostituire il tecnico del sonno che fa l’analisi, perché è impossibile, ma che contribuisca ad accorciare tra il 50 e l’80% i tempi di questa analisi dei dati».

E proprio «parlando con i medici» è nata, questa idea. «Fin dall’inizio della ricerca – rileva la dottoressa Faraci, che è anche Responsabile Unità di specializzazione in biosignal processing alla Supsi – i medici stessi sono stati coinvolti nel progetto. Ogni volta che facciamo un passo avanti ci confrontiamo con loro, e sono sempre i medici, gli addetti ai lavori, a darci degli input, dei suggerimenti, a chiederci se sia possibile aggiungere questa o quella cosa nel programma». Una collaborazione a più livelli che «è la forza di questo progetto», perché se è vero che «dei sistemi simili, che magari usano tecniche o algoritmi diversi, sono già presenti sul mercato, è altrettanto vero che non vengono utilizzati». Il gruppo, che oltre alla dottoressa Faraci è composto anche dal dottor Panagiotis Bargiotas e dal dottorando Luigi Fiorillo, si è chiesto il perché. E, parlando con medici e operatori, «abbiamo fatto un elenco dei punti che potrebbero essere migliorati per inserire questa tecnologia nella routine di tutti i giorni, nella loro vita quotidiana». Per evitare, come spesso accade, di creare software e piattaforme nell’ambito medicale «che poi non vengono usati perché il loro sviluppo non ha tenuto conto degli esatti desideri dei medici». Non è un valore aggiunto di poco conto, quello della comunicazione con gli ‘utenti finali’. Innanzitutto perché prima hanno i dati, prima possono iniziare la diagnosi. Ma anche perché, annota la dottoressa Faraci, «la routine medica è una routine quotidiana e molto improntata alla pratica, alla clinica. Se il programma che utilizzano non li segue come vogliono loro, se non è funzionale alle loro esigenze, non viene usato». E l’ambizione, conclude, «è che questo progetto co-finanziato dalla Segreteria di Stato per la Formazione, la ricerca e l’innovazione e dall’Unione europea venga messo in vendita in tutto il mondo».

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