Ticino

'Ho tenuto duro e all'ultimo è arrivato il fegato che mi ha salvato la vita'

31 ottobre 2017
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In una Svizzera dove ogni settimana due persone muoiono in lista di attesa per un organo, c'è anche chi ce la fa a tornare a vivere. Io sono una di queste persone, costretto per mesi ad aspettare un fegato. Poi ecco la rinascita. Nel caso del sottoscritto, c’è l’“happy end”. Come nei migliori film. Un lieto fine che fa seguito a mesi, gli ultimi, intensi. E soprattutto indelebili, eterni. Come una pellicola cinematografica. Che ora viene risbobinata. Primo fotogramma: primavera-estate 2016. C’è appena il tempo di festeggiare il matrimonio e concedersi un breve break a Firenze in attesa del vero e proprio viaggio di nozze. Al rientro inizia il periplo. Il problema epatico che mi porto dietro ormai da una decina d’anni – importante sì, ma sinora mai tale da sfociare nella messa in lista d’attesa per un trapianto – si ripresenta. Stavolta con sintomi ancora più marcati. Tanto da imporre un nuovo stop lavorativo a tempo indeterminato e nuove approfondite analisi mediche.

Finisco in lista di attesa per un fegato, passano mesi e mesi

Altro che viaggio di nozze, come preventivato in tempi non sospetti. Ginevra, Ospedale cantonale e ospedale La Carità di Locarno, anziché la costiera amalfitana. Il... menu dell’estate è servito. Il digestivo, per restare in tema epatico, è che stavolta me ne esco con l’entrata ufficiale nella lista d’attesa per un trapianto di fegato: ora c’è anche il mio di nome in quella lista che di anno in anno si allunga come un biscione. Ufficialmente ci entra il 16 settembre 2016. Tempo medio stimato per risalire la lista: un anno circa. Un fegato. Ecco ciò di cui necessito. Io come molti altri. Il tempo passa: uno, due, quattro, sei mesi... Nessuna novità sul fronte. Poi, finalmente, in gennaio, ecco la comunicazione (inabituale a dire il vero) di essere nella top-10 della mia lista. Passa un altro paio di mesi senza novità. E arriviamo a inizio marzo, quando il corso degli eventi subisce una rapida impennata. Vengo sollecitato ad anticipare un prelievo sanguigno in quanto ormai prossimo alla testa della “classifica”. Altro fotogramma: 10 marzo. Venerdì. Al cimitero, nel salutare mio padre nel giorno del suo compleanno, avrei voluto portare in regalo il mio nuovo fegato, ma niente. Ci porto solo la promessa di tenere duro, di non perdere la speranza. I riflettori si riaccendono sull’indomani. Con mia moglie ci ritroviamo a guardare un toccante film (“Return to me”) incentrato sul tema di donazioni e trapianti (cardiaci in questo caso). A volte il destino sa rivelarsi assai bizzarro: la fatidica “chiamata” arriva quella notte. Alle 5.34 di domenica 12 marzo 2017.

L'attesa, poi il telefono una notte suona, inizia la rinascita

Stavolta ci siamo. Quel famoso zaino accanto al letto pronto alla bisogna, testimone di simil-precarietà con cui deve convivere un paziente in attesa, viene chiamato in servizio. Quando il telefono suona, lì per lì penso alla sveglia, inavvertitamente lasciata inserita anche in domenica mattina. Poi guardo il display del telefono e capisco... Ho quasi i brividi. Sono spaventato: il tempo dell’attesa è finito. L’interlocutore si sincera sul mio stato di salute negli ultimi giorni e mi informa della disponibilità (ancora da confermare) di un fegato destinato a me. Dopodiché, senza tanti giri di parole, chiede conferma della mia volontà di riceverlo. Confermo. Emozioni e concitazione riempiono i fotogrammi successivi. Mentre da qualche parte in Svizzera si sta pianificando la mia trasferta a Ginevra, come un automa eseguo ciò che mi è stato detto di fare in attesa di nuove istruzioni: una doccia e un bicchiere d’acqua («E poi a digiuno!»). Eccole, le nuove istruzioni: si va in elicottero, con un volo taxi-medico privato. Appuntamento alle 8.00 all’elibase di Magadino-Locarno. Decollo previsto alle 8.14, dopo le operazioni di rifornimento. Con sollievo mi dicono che anche mia moglie, vera colonna di sostegno in tutti questi mesi, potrà venire con me in elicottero. Arriviamo sul posto con largo anticipo, tanto che la campagna tutt’attorno respira ancora un’aria addormentata. Solo tendendo l’orecchio si percepisce, in lontananza, il rumore di un elicottero. Alle 8, in perfetto orario, si posa a terra, a due passi da noi. A bordo c’è pure un improvvisato minibar, solo da guardare ahimé, viste le istruzioni da Ginevra. Alle 9 spaccate ci posiamo sul tetto dell’ospedale ginevrino, dove ci attende il coordinatore dei trapianti, “la voce dall’altra parte del telefono” di quella notte. Anche qui ci spiegano i prossimi passi della mattinata, premurandosi di specificare che al momento l’intervento non è confermato: lo sarà solamente quando il medico designato avrà visionato me e l’organo che mi hanno riservato. Nel frattempo iniziano i controlli al sottoscritto e la preparazione all’operazione. Poi, verso le 14, arriva la conferma.

Lunghe sedici ore di operazione 

Durata stimata dell’operazione: sulle 14-16 ore. C’è il rischio che l’intervento richieda più attenzione del normale. Ma così, per fortuna, non è. Alle 16 iniziano le operazioni di preparazione. È lì che mi congedo da mia moglie. La ritroverò solo qualche giorno più tardi... Fino ad allora il film è tutto basato sui racconti degli altri. Da quando la responsabile dell’équipe di anestesiste (tre) mi invita a rilassarmi e a pensare a uno scenario di mio gradimento – un wellness – dove avrei voluto trovarmi al risveglio, è solamente il buio. Attorno alle 5 di mattina di lunedì 13 mia moglie riceve la telefonata che le comunica che l’operazione si è appena conclusa felicemente. Si precipita in ospedale e veglia il mio sonno, che continua ininterrottamente. E così succede anche l’indomani. Poi, la sera, dopo l’orario delle visite, ho un primo veloce risveglio. Il tempo di chiedere all’infermiera di avvisarmi quando inizierà l’intervento. Quando vengo informato che il tutto è già acqua passata, da un giorno addirittura, mi riaddormento rassicurato. Fino a mercoledì sera, quando decidono di riportarmi nel mondo reale, sebbene ancora stordito da dosi massicce di antidolorifici. Giovedì mattina, quando riapro gli occhi, ecco mia moglie: si torna a vivere la vita vera! Con 57 punti in pancia ma la voglia di voltare pagina una volta per tutte.

L’unico tabù? Il pompelmo

Due settimane dopo il mio arrivo a Ginevra, lunedì 27 marzo, ci lasciamo alle spalle la città di Calvino per tornare in Ticino, stavolta in treno. Il resto è storia più fresca: una lenta riabilitazione, con alti e bassi, ma un costante miglioramento del quadro generale. Dall’estrazione dei punti (al 21esimo giorno dall’intervento) alla graduale diminuzione del numero di medicamenti da assumere quotidianamente, passando per un diradamento dei controlli medici e per l’allargamento del bouquet di alimenti consentiti. Fino a ritrovare una progressiva normalità nella vita. Come prima, meglio di prima. L’unico tabù? Il pompelmo. Perché la sua assunzione annulla l’effetto dei medicamenti. Ma con questo divieto ci si può tranquillamente convivere. Del resto, sapendolo in anticipo, prima dell’operazione ne ho fatta un’indigestione!

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