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‘Voglio usare l'architettura per aiutare la Siria’

La storia di una giovane siriana, che grazie a una borsa di studio è riuscita a coronare il suo sogno e diventare architetta, malgrado le molte difficoltà

La giovane architetta Victoria Jabbour
8 settembre 2023
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Partire per studiare all’estero al giorno d’oggi non è poi una cosa così strana, in particolare se si vive in un Paese come il nostro, dove il buon livello del sistema educativo e il reddito generalmente più alto rispetto alla media europea aprono facilmente le porte alla maggior parte degli atenei stranieri. La storia cambia, però, quando a farlo è una giovane ragazza siriana proveniente da una città distrutta dalla guerra, con il sogno di diventare architetta studiando in Ticino, pur non parlando la lingua. Ed è proprio questa la storia di Victoria Jabbour, che a giugno di quest’anno è riuscita nell’impresa di ottenere il bachelor presso l’Accademia di architettura di Mendrisio, quattro anni dopo essere arrivata nel nostro Cantone grazie a una borsa di studio, ottenuta anche con il sostegno dell’associazione Amici dell’Accademia.

Com’è nata l’idea di venire in Svizzera?

È tutto successo grazie all’incontro con Roberto Antonini (giornalista ticinese, ndr), che in quel momento si trovava in Siria per fare un reportage sulla guerra. Stava passando sotto il nostro balcone, e vedendo mio padre ha chiesto di poter entrare. Parlandoci gli avevo detto che mi sarebbe piaciuto studiare architettura, e grazie al suo aiuto sono entrata in contatto con l’associazione Amici dell’Accademia. Tramite loro sono riuscita a ottenere una borsa di studio, il visto e tutto quanto, e dopo aver passato gli esami di ammissione sono entrata ufficialmente all’Accademia.

Com’è stato il primo impatto con la realtà ticinese?

All’università sono stati tutti molto gentili con me, e sono sempre stata supportata. Quando incontravo qualche difficoltà, avevo domande da fare, o c’erano dei problemi burocratici, cercavano sempre di trovare una soluzione.

Quando sei arrivata parlavi pochissimo l’italiano, quindi ti chiedo: come hai fatto a laurearti?

In Accademia ho seguito delle lezioni gratuite di italiano, che venivano offerte agli studenti stranieri. Poi come parte del percorso di studio ho svolto uno stage presso uno studio di architettura a Lugano, dove per fortuna parlavano poco l’inglese e mi sono dovuta sforzare a parlare italiano. Ho ricevuto anche un grande aiuto da parte di Roberto e della sua famiglia. A scuola le lezioni erano in italiano, e per seguirle chiedevo ai miei compagni di prestarmi gli appunti che poi a casa traducevo e ripassavo. Fortunatamente ho avuto la possibilità di svolgere gli esami in inglese.

Oltre alla lingua hai avuto altre difficoltà a livello scolastico?

Sì. Inizialmente c’era un grande divario, perché a causa della guerra non ho mai finito completamente il liceo, anche perché nella mia città non c’erano abbastanza professori. Quindi quando sono arrivata in Ticino c’era una grande differenza tra me e le persone che avevano seguito un normale percorso di studi. Questo significa che ho dovuto fare un doppio sforzo rispetto ai miei amici. In Accademia alcuni professori mi hanno aiutato dandomi dei libri o dei siti su cui ripassare, e anche alcuni studenti degli anni superiori mi hanno dato una mano, ad esempio facendomi vedere come si utilizzavano certi programmi per sviluppare le mie competenze in architettura. Un aspetto positivo è che all’Accademia gli studenti non sentono di dover competere con gli altri, e questo favoriva la collaborazione.

E in questo modo sei riuscita a passare tutti gli anni senza mai venir bocciata?

Esatto.

Un’impresa non facile. Quali sono i tuoi piani adesso?

Mi piacerebbe conseguire il Master, ma il problema al momento sono i soldi. Spero di riuscire a trovare qualcuno che mi aiuti, perché ritengo sia importante completare il percorso di studi per entrare nel mondo professionale. Vorrei continuare a studiare in Ticino: il livello dell’insegnamento è molto alto, e tanti professori sono molto importanti. Ho imparato tanto grazie a loro.

E dopo la scuola? Qual è il tuo sogno?

Il mio sogno è sempre stato poter dare. Quando ero piccola desideravo una casa mia perché quella in cui abitavo era distrutta, mentre ora desidero che tutti possano avere una casa. Per questo vorrei utilizzare l’architettura per aiutare le persone qui in Siria. Se solo tu potessi vedere quello che sto vedendo ora: sembra di stare in un film sulla fine del mondo. Tutti gli edifici sono distrutti, qui non c’è nessuno, non ci sono animali, nemmeno gli uccelli. E mi rattrista l’idea di non usare quello che ho imparato per aiutare gli altri siriani, che non hanno avuto la mia stessa fortuna. (Victoria vive a Homs, una delle città siriane più devastate dalla guerra, ndr). Non so ancora bene come farò, perché qui il lavoro da fare è tantissimo, ma spero di riuscire a usare l’architettura per permettere alle persone di avere una vita normale.

Non hai pensato di aiutare la tua famiglia a lasciare la Siria, anziché tornare?

La mia famiglia è molto legata alla nostra terra. Mio padre dice sempre che quella è la sua patria e che desidera morire lì. Una volta, quando abbiamo dovuto cambiare temporaneamente casa per scappare dalla guerra, mio padre si era molto rattristato, perché quella casa era appartenuta a suo padre, e a suo padre prima di lui.

La tua famiglia come ha reagito quando ha saputo che saresti andata in Ticino a studiare?

Erano molto fieri di me, ricordo che mio padre si è anche messo a piangere. In quel momento abitavamo in una casa completamente distrutta, e vedermi andare in Svizzera per diventare architetta era davvero un sogno per tutta la famiglia.

E non erano preoccupati per te?

Confidavano nel fatto che sapevo quello che facevo. Sin da piccola, quando decidevo di fare qualcosa, ciò significava che mi sentivo pronta, e mi hanno sempre dato fiducia. È grazie a loro che sono una persona forte. Inoltre, li confortava il supporto di Roberto.

Parlami invece della tua esperienza extrascolastica: come ti sei trovata in Ticino, qual è stata l’accoglienza?

Mi sono trovata bene e ho stretto molte amicizie in Accademia, anche con ticinesi. Al di fuori dell’università non avevo una grande vita sociale, perché passavo molto tempo in Accademia a studiare e la cerchia sociale che mi ero creata lì era sufficiente. In generale però mi è parso che ci fosse un’idea molto strana dei siriani: alcune persone erano sorprese del fatto che non fossi una rifugiata o che stessi studiando architettura. Una volta una persona mi ha detto che non potevo essere siriana perché ero troppo bianca, e lì ho pensato che questa persona probabilmente nemmeno sapesse dove si trova la Siria. Questo genere di commenti un po’ stupidi non venivano comunque solo da ticinesi, ma da persone di diversa provenienza. E penso che quest’immagine derivi molto dai media, perché quando si parla di Siria si parla solamente della guerra. Chiaro, la guerra è un aspetto importante, ma essere siriani è molto altro.

Hai conosciuto dei rifugiati siriani in Ticino? Cosa ne pensi della loro condizione?

Ho conosciuto solamente una ragazza siriana di Lugano, ma non ho mai approfondito la sua condizione di rifugiata perché mi sembrava troppo personale. Mi sembrava felice però.

Qual è stato il momento più buio in questi quattro anni?

Durante il secondo anno ho particolarmente sentito la differenza tra me e gli altri studenti. Le conseguenze della guerra erano rese evidenti dal divario che ci separava. Ad esempio, se per un lavoro gli altri studenti ci mettevano quattro ore, a me ci volevano due giorni. I professori mi dissero che avrei dovuto lavorare il doppio per stare al passo, e mi consigliarono di svolgere lo stage obbligatorio in anticipo. Normalmente gli studenti fanno lo stage al termine del secondo anno, mentre io l’ho fatto alla fine del primo semestre, per riuscire ad accumulare più esperienza.

Hai mai pensato di ‘mollare’?

Qualche volta sì, perché mi mancava la mia famiglia. Io sono molto legata a loro, e paradossalmente la famiglia era sia la mia motivazione per andare avanti, sia la mia ragione per ‘mollare’. Parlando con i miei genitori, però, ho sempre trovato la forza di continuare, perché loro credevano in me. Credevano che ce l’avrei fatta. Anche il signor Antonini mi ha sempre incoraggiata ad andare avanti.

A ogni modo quello che sei riuscita a fare non è da tutti, cosa pensi abbia fatto la differenza?

Io penso che quando qualcuno ha una tragedia nella propria vita, diventa più sicuro di quello che deve fare. Io ho sempre aspettato il momento di poter tornare ad avere una vita normale senza guerra, e sono veramente pronta a combattere per le cose che voglio, per la mia famiglia e per il mio sogno. Ma la tragedia può essere diversa per ciascuno di noi: per me è la guerra, per qualcun altro possono essere i problemi in famiglia, per altri magari il non avere amici.

Non c’è una scala nella tragedia, e ognuno percepisce la propria come la più grande del mondo, e questa può essere molto grave senza dover essere una guerra. Con questo non voglio dire che tutte le persone di successo provengano da un passato tragico, ma questo può talvolta aiutare se viene utilizzato per andare avanti, anziché fermarsi a commiserarsi. La guerra in Siria è scoppiata quando ero ancora una bambina, ma non ho permesso alla guerra di rendermi una vittima, lottando invece per cambiare il mio futuro.

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