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‘Qualcosa non ha funzionato nella sua presa a carico’

Jamileh Amini, rappresentante della comunità afghana, si esprime sul suicidio del giovane richiedente l'asilo avvenuto a Cadro

Un momento della cerimonia di sabato
(Ti-Press)
17 luglio 2023
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Partire giovanissimi, affrontare un viaggio lungo e duro, prima in balìa dei passatori e poi sentirsi come un oggetto spostati da un centro per richiedenti l’asilo all’altro, e infine sbattere contro il muro dell’esclusione. Dell’insuccesso, della delusione e in definitiva della vergogna, privata e sociale. Questo potrebbe aver provato il 20enne afghano suicidatosi martedì al centro per richiedenti l’asilo di Cadro, suscitando interrogativi sulla sua presa a carico e rabbia nella comunità afghana ticinese, che sabato si è riunita a Lugano in un momento di raccoglimento e di ricordo della giovane vita spezzata.

‘Ai cugini aveva detto che stava per iniziare l’università. Non era vero’

«Non ce lo aspettavamo. È stato uno shock per tutti – ci confida Jamileh Amini, in rappresentanza della comunità –. Perché dal nostro punto di vista era seguito, in quanto ospite di un centro d’accoglienza e per noi significa che lo Stato se ne stava prendendo cura. Ma evidentemente qualcosa non ha funzionato come avrebbe dovuto nella sua presa a carico. Sentire di questi episodi è veramente frustrante. La salute mentale è un tema molto importante. La salute in generale è un diritto di tutti». Una salute mentale che vacilla, anche a causa del senso di vergogna dettato dall’esclusione sociale. «Mi ha colpito molto quello che mi hanno detto i cugini del giovane che sono arrivati dalla Francia mercoledì. Hanno detto che durante l’ultima chiamata prima che si suicidasse, lui aveva detto loro che andava tutto bene, che andava a scuola, che stava facendo uno stage e che a breve avrebbe iniziato l’università. Ma non era vero».

Aveva confidato: ‘Non so come uscire da questa situazione’

Perché queste bugie? «I motivi possono essere tanti, ma penso che ci sia un aspetto legato all’orgoglio ferito. Quando un giovane lascia il proprio Paese con la speranza, propria e di tutta la famiglia che lo vede partire, di andare in Europa per trovare un lavoro e una vita migliore e questo non accade, è una grossa delusione. Come poteva chiamare a casa, dopo quattro anni, e dire che non stava bene, che non faceva niente, che non lavorava, che non c’erano prospettive, che non sapeva cosa fare? Più volte aveva confidato ai suoi amici del centro richiedenti l’asilo: “Non so come fare per uscire da questa situazione”».

Un senso d’impotenza

Un senso d’impotenza dunque? «Sì. Avere un lavoro significa avere libertà, non dover aspettare lo spillatico per poter uscire. Ricordiamoci che si tratta di giovani, e come tali piace loro essere attivi, uscire, avere una vita sociale. Ma in quanto richiedenti l’asilo invece devono sottostare a regole ben precise, limitazioni di vario genere. Passano gli anni, i compleanni, le festività, lontani dalla famiglia. Già di base ci si sente in una situazione molto fragile, e oltretutto non si ha il supporto della famiglia e questo crea ulteriore fragilità. Con il Permesso F (quello concesso alle persone ammesse provvisoriamente, ndr) non si ha diritto di viaggiare, anche se si vive in Svizzera da anni. Il ragazzo suicidatosi la scorsa estate viveva qui da sette anni e il suo desiderio era andare a vedere la sua famiglia che era rifugiata in Iran. Ma non era possibile».

‘Bisogna cambiare le cose’

Amini spiega che gli afghani in Ticino non si sentono necessariamente discriminati o più discriminati di altre comunità straniere, ma che le problematiche da affrontare sono numerose. E questo, nei casi più disperati, può portare al suicidio. Come successo già a tre giovani afghani nell’ultimo anno nel cantone, l’ultimo dei quali settimana scorsa a Cadro. «Ovviamente in un centro come quello di Cadro ci deve essere un’attenzione maggiore, un occhio in più – continua –. Ma, indipendentemente da dove siano avvenuti questi suicidi, il discorso davvero importante è che tre in un anno, in un cantone comunque piccolo come il Ticino e oltretutto all’interno di una comunità ristretta come quella afghana, sono tanti. Troppi. È indice che la pressione psicologica, i problemi, sono seri. Bisogna cambiare le cose, a cominciare dal sistema dell’accoglienza. Le persone non vengono trattate come tali, ma come numeri. Questo non va bene. Abbiamo tutti un’identità e una dignità. Ora è importante agire, anche a livello politico».

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