Bellinzonese

'L'amianto girava ovunque'

Officine Ffs: le testimonianze di un ex apprendista (che ebbe il coraggio di ribellarsi) e di tre operai che lavoravano a contatto con la sostanza

Ti-Press
25 settembre 2019
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«A cavallo degli anni 80 e 90 il problema amianto alle Officine Ffs di Bellinzona era per molti operai un tabù. Un problema noto a tutti che toccava più settori dello stabilimento. Ma per quieto vivere e per non infastidire i superiori molti subivano in silenzio. Talvolta scaricando su altri, ad esempio noi apprendisti, talune mansioni ritenute a rischio. Quando mi rifiutai di effettuare una lavorazione al tornio per la ‘pulizia’ dei ceppi dei freni costituiti da una lega contenente amianto, il mio capo mi rimproverò ordinandomi di non venire più a lavorare». Licenziato per disobbedienza? «Dovetti appellarmi al capo officina per ottenere ragione. Purtroppo, a differenza di me che avevo avuto la ‘tolla’ di reagire, molti altri hanno subìto in silenzio».

Il nostro interlocutore (il nome è noto alla redazione) racconta di come in quegli anni il risanamento delle carrozze, che consisteva nell’eliminare e sostituire le parti contenenti amianto, avvenisse in un settore isolato dagli altri: «Dapprima gli operai delle Officine smontavano sedili, riscaldamenti e pannelli contenenti amianto usato in precedenza per le sue capacità isolanti e meccaniche; successivamente squadre specializzate di una ditta esterna, protette da tute speciali, scrostavano le pareti spruzzate internamente con amianto floccato. Per contro altri pezzi dei vagoni venivano gestiti in spazi non isolati». L’ex apprendista elettrotecnico, oggi ingegnere in uno studio privato, ricorda che «talune parti meccaniche ed elettriche andavano periodicamente risanate. Lavorazioni eseguite a secco con macchine a utensili dalle quali si sprigiona polvere d’amianto. Mansioni che taluni operai rifilavano agli apprendisti, molto spesso nelle ore serali, come ultimo compito della giornata». Motivo? «Chi lo sa… Forse nella convinzione che le polveri potessero poi depositarsi al suolo durante la notte o andarsene da qualche parte. Ma essendo leggerissime, in realtà vagavano nell’ambiente per settimane e con le correnti d’aria raggiungevano anche altre aree vicine dove non si effettuavano lavorazioni alla presenza di amianto».

Rileggendo oggi i fatti di allora alla luce delle ultime notizie relative ai decessi (vedi la ‘Regione’ di ieri), il nostro interlocutore mastica amaro: «Sto meditando di sollecitare la Suva affinché m’inserisca nel programma di esami polmonari. Tuttavia non mi faccio troppe illusioni; già allora mi ero fatto avanti ottenendo un bel menavia».

‘Non ci si vedeva l’un l’altro’

Un altro ex operaio (siamo ora a inizio anni 80) ci racconta che quando bisognava risanare, a rotazione tutto il personale del capannone dei carri era obbligato a entrare nelle carrozze per eliminare le componenti di amianto. «Per proteggerci ci davano delle mascherine che però servivano a poco». Anche all’epoca si sapeva che la sostanza non andava respirata, «ma l’informazione non era certo quella odierna». A un certo punto però gli operai si sono ribellati e hanno chiesto alla direzione di poter disporre di protezioni più sicure. E così sono state messe a disposizione un’apposita tuta e una mascherina con un ventilatore attaccato alla vita. Il problema – ci spiega un altro dipendente – è che sebbene ci fosse un filtro, questo aspirava l’aria contaminata presente nella carrozza: «La sensazione era di respirare aria fresca, ma in realtà non lo era considerate le polveri presenti nell’ambiente». Basti pensare che quando gli operai estraevano l’amianto dal plafone delle carrozze, si diffondeva una nebbia bianca che impediva loro di vedersi l’un l’altro. Inoltre, chi si rifiutava di entrare subiva pressioni: «Se non rigavi dritto rischiavi di perdere lo scatto salariale previsto».

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