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'La situazione politica è grave, ma non è seria'

(©Ti-Press/Carlo Reguzzi)
30 novembre 2017
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di Andrea Ghiringhelli, storico

Recentemente il presidente del Plr ticinese si è dilungato con piglio garbato e cortese in alcune contestazioni di un mio articolo. Mi soffermavo sulla politica che tende al brutto e aggiungevo che anche il Ticino non fa eccezioni, purtroppo. I sintomi palesi: la disaffezione dell’elettorato che crede poco nelle istituzioni e ancor meno nei partiti, e in alcuni paesi la quota di gradimento è quasi azzerata. La conseguenza: si dibatte da anni sul declino della politica e alcuni la fanno coincidere con la crisi della democrazia rappresentativa minata da politici che poco rappresentano i cittadini; altri indicano la povertà culturale di tanti eletti; altri rimandano al “populismo linguistico” che privilegia la narrazione all’argomentazione, che sostituisce le emozioni alle idee: è il trionfo dell’eloquenza volgare, rozza, semplicistica, aggressiva che mortifica il dialogo e paralizza la politica. I sintomi di questi mali li ritroviamo un po’ ovunque e negarli mi pare difficile.

La politica come è e come dovrebbe essere

Affermo – e lo dico per levarmi dall’equivoco imbarazzante che mi squalifica a critico fastidioso e ingiustificato – che chi si pone al servizio del bene pubblico sia da sostenere, ed esercitare l’utile critica sia il miglior modo di farlo. Ma vi è nella categoria dei politici una propensione diffusa a porsi pregiudizialmente sulla difensiva, e, invece di ragionare su torti e ragioni, a scivolare nelle dichiarazioni di intenzioni, a scansare la politica “come è” per soffermarsi sulla politica “come dovrebbe essere”: la realtà fattuale viene così mascherata dalla realtà auspicata. Non c’è dubbio, e concordo con Caprara, che l’ambizione sua e del suo partito sia quella di adoperarsi per il buon governo sulla base dei principi del liberalismo maturo. Ma la narrazione è crudamente smentita dallo spettacolo offerto a noi semplici cittadini.

La politica – non dimentichiamolo – è una casa con due porte: in uscita vi sono le leggi, i regolamenti, le disposizioni di governi e parlamenti mentre in entrata bussano le proposte, i progetti, le pressioni, e i voti. Quando le porte sono ben calibrate tutto funziona a dovere, ma se cominciano a scricchiolare, o si aprono male, o vengono sbattute sulla faccia dei cittadini, subito cresce la disaffezione verso i partiti e le istituzioni, e si accendono le proteste di chi reclama nuove forme di democrazia diretta. Nella seconda parte dell’intervento del presidente Caprara vi è una descrizione delle mete da perseguire per il bene comune che condivido, ma non mi pare che sia quello il menu quotidiano che propone la mensa della nostra politica. Tutto sommato, sarebbe stato utile, dopo il doveroso richiamo ai politici che fanno il loro lavoro con devozione e impegno, chiedersi umilmente che cosa non va. Ma l’impresa è difficile perché – come avverte il politologo Gianfranco Pasquino – i politici non sono inclini a svestirsi del loro ruolo di uomini di parte e poco propensi all’autocritica: la conclusione sconsolata è che i partiti in genere non sono in grado di autoriformarsi e piuttosto si autoaffondano.

Non credo nell’utopia del passato e non coltivo particolari nostalgie per la trascorsa democrazia dei partiti. Dopo la lunga stagione della politica a fucilate, Berna ci impose “à chacun sa part”, un modello consociativo che durò per gran parte del ’900: fu il periodo della modernizzazione del paese e i meriti dei partiti non vanno sottaciuti, ma pure vanno registrate le forme violente di coercizione e la radicata corruzione elettorale che ancora nel 1978 denunciava il giudice Gastone Luvini come una piaga difficile da estirpare. Il consociativismo cumulò grandi meriti, ma dopo il 1922 esso divenne una strada senza uscita che assecondò vistose forme di deresponsabilizzazione dei partiti, e la naturale identificazione con lo Stato ha reso difficile un’autentica cultura dell’opposizione. Questo breve cenno solo per precisare che quando affermo che gli scandali di questi mesi, dai permessi facili ad Argo, hanno un’ampiezza senza precedenti, non gli oppongo un passato senza macchia: mi limito a constatare che questi episodi sono per alcuni aspetti inusitati perché coinvolgono pezzi dell’amministrazione pubblica e indicano una politica che non guida ma è guidata da funzionari che dovrebbero suggerire e non decidere al posto della politica. Certo, negli anni 60 e 70 abbiamo avuto altri episodi poco felici, e tre consiglieri di Stato abbandonarono la carica – chi per questioni fiscali, chi per multe condonate, chi per qualche eccesso comportamentale –. E anche più tardi ci fu qualche sgradevole sorpresa.

Furono comunque episodi circoscritti a una persona e non lasciavano sospetti di occultamenti e complicità all’interno dell’apparato statale.

Oggi lo scandalo è tale perché coinvolge politica e amministrazione: ha dimensioni incerte, sfrangiate, ambigue, e le sordità, le esitazioni dei partiti, condite dai consueti calcoli di bottega, non aiutano a chiarire. E ai cittadini, già sfiduciati e sempre meno propensi a riconoscersi negli eletti, non si può continuare a raccontare che questa è la bella politica: lo spettacolo offerto non lo consente. Queste vicende richiamano i principi della decenza politica e la politica dovrebbe guardarsi allo specchio e porsi, finalmente, qualche problema di etica pubblica. Invece no: si balbetta, si giustifica, si tace: c’è chi invoca dimissioni e chi no, chi scagiona e chi condanna, chi si accosta e chi si discosta, coloro per i quali tocca alla magistratura chiarire e coloro per i quali i problemi sono altri ed è meglio occuparsi di chi per motivi umanitari ha profanato la legge. L’atteggiamento di alcuni deputati – e non generalizzo – è talmente paradossale da scivolare nel comico grottesco che poi ingiustamente, ma inevitabilmente, si riverbera su tutta la classe politica. Una situazione che non fa bella la politica e che mi rammenta quanto diceva Ennio Flaiano: la situazione politica è grave ma non è seria.

Il gioco dei mediani

È notizia di questi giorni: secondo uno studio, sembra che i troppo intelligenti non siano graditi e non facciano carriera e due studiosi americani hanno mostrato che i partiti spesso, per vincere le elezioni, scelgono di non candidare i politici migliori: questione di feeling, di sintonia fra candidati ed elettori, forse, e non so quanto sia vero; ma sembra una conferma che la mediocrazia ha fatto molta strada. Un simile argomento lo avevano pure sostenuto di recente alcuni giornalisti, corrispondenti sotto la cupola federale: hanno constatato che i politici troppo talentuosi si accordano male con il resto della compagnia. Secondo Indro Montanelli non c’è da stupirsi perché la democrazia, per sua natura, rappresenta comunque il trionfo della mediocrità ed esclude la virtù dei migliori. E proprio un amico giornalista di ampio sapere mi rammenta in questi giorni che anche il nostro Plinio Martini la pensava così perché “gli uomini sono più spesso mediocri che cattivi, e non sempre la democrazia porta in alto i migliori”. La mediocrazia va più in là, perché consegna il potere nelle mani di una classe di individui con comportamenti medi, di competenze medie, e le idee estreme non sono gradite per principio. Sono loro che per anni ci hanno ripetuto che insistere sul binomio destra/sinistra non aveva più senso e che il liberismo senza freni ci avrebbe condotto, per dirla con il Candide di Voltaire “nel migliore dei mondi possibili”. Oggi, se diamo un’occhiata al coefficiente di Gini (misura la diseguaglianza nella distribuzione del reddito e anche della ricchezza), ci accorgiamo che, ovunque in Occidente, la disparità fra ricchi e poveri è aumentata, in alcuni casi a dismisura, e qualche dubbio ci viene sulla bontà della ricetta proposta e sui rimedi previsti. Tanto per chiarire: parliamo di mediocrazia un po’ ovunque in Occidente, e non è lecito confonderla con questo o quel modello di democrazia, competitiva o di concordanza che sia: la mediocrazia non designa un regime politico, non dipende da un sistema elettorale: è il conformismo che punta sempre al centro, è un atteggiamento mentale che non ama l’audacia delle idee, e il pensiero critico risulta fastidioso. Il politico mediocre, la categoria più diffusa, mi rammenta da vicino “Il conformista”, di Moravia che si distingueva per la povertà e la rigidezza di poche idee. Ecco, è proprio questo. Un giornale a larga tiratura ha illustrato il concetto con efficace irriverenza: la mediocrazia coincide con la leadersheep e l’immagine esibita è quella del gregge. Che vi sia un predominio sociale e culturale e politico della mediocrità – ha commentato il giornale – è un assunto facile da verificare: basta guardarsi attorno.

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