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‘Con un ‘no’ a perderci saranno le donne che hanno solo l’Avs’

La consigliera nazionale Simone de Montmollin (Plr/Ge) sulla riforma del primo pilastro: non scarichiamo la nostra responsabilità sui giovani

La ginevrina è in Consiglio nazionale dal 2019
(Keystone)
14 settembre 2022
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Simone de Montmollin, perché le donne (e gli uomini) dovrebbero dire ‘sì’ ad Avs 21? Cos’hanno da guadagnarci?

Né più né meno che l’avvenire dell’Avs, ovvero del fondamento della nostra protezione sociale, che deve permettere a chiunque di coprire il minimo vitale. Dobbiamo fare in modo che questo modello – basato sulla solidarietà inter-generazionale: le persone attive ‘pagano’ per le pensioni dei loro genitori e nonni – non venga indebolito. Dopo 25 anni senza riforme sostanziali del primo pilastro, non possiamo permetterci di scaricare la nostra responsabilità sulle future generazioni. Per me è evidente che questo modello debba essere adattato a un contesto sociale ed economico che è molto cambiato dall’ultima riforma dell’Avs [1997, ndr].

Per la sinistra non è affatto ‘evidente’: sostiene che questa riforma viene fatta "sulle spalle delle donne".

Capisco la preoccupazione delle donne, in particolare di quelle che possono contare solo sul primo pilastro, alle quali ora viene chiesto uno sforzo supplementare. I contrari ad Avs 21 vogliono mantenere l’attenzione su questa categoria di persone, impiegate in settori difficili, con bassi salari. Ma queste donne non solo le uniche a essere interessate dalla riforma. L’Avs è un progetto che riguarda la collettività intera. La posta in gioco qui è per l’insieme della popolazione. E soprattutto per i giovani.

D’accordo, ma perché chiamare alla cassa le donne?

Perché il progetto le favorisce. Anzitutto, si parifica l’età di pensionamento: quindi non ci sarà più una distinzione di genere su questo punto. Poi, oggi le donne vanno in pensione per legge a 64 anni: alcune vanno prima, ma altre continuano a lavorare oltre questa soglia. Il sistema attuale, però, è rigido, per entrambi i sessi: o si lavora o si è in pensione. Avs 21, invece, permette fra i 63 e i 70 anni di coniugare le due cose, un progresso che va a beneficio soprattutto delle donne: quelle che desiderano lavorare oltre l’età di pensionamento potranno farlo, migliorando al contempo le loro rendite. Inoltre, non va dimenticato che le donne che lavoreranno un anno in più verseranno più contributi durante quell’anno, potendo così migliorare le loro rendite del primo e del secondo pilastro. Infine, le donne della generazione di transizione [quelle nate tra il 1961 e il 1969, le prime ad andare in pensione col nuovo regime se Avs 21 dovesse entrare in vigore nel 2024, ndr] beneficeranno delle misure compensatorie previste. Non c’è alcuna ragione di dire che le donne sono svantaggiate con queste riforma.

Solo nove classi d’età, mentre il Consiglio federale ne proponeva 15; unicamente le donne nate nel 1964 e nel 1965 riceveranno il supplemento ‘pieno’, cioè 160 franchi; e soltanto le donne con redditi molto bassi potranno continuare ad andare in pensione a 64 anni senza perderci. Le compensazioni non sono affatto generose.

Il Parlamento ha voluto andare incontro alle donne più fragili sul piano professionale, che possono contare esclusivamente o quasi sull’Avs. Le donne con salari medi o elevati in genere hanno un secondo pilastro: per loro è un po’ meno problematico lavorare fino a 65 anni, anziché a 64.

Le donne che riceveranno una compensazione sono una minoranza. Per tutte quelle nate dal 1970 in poi, Avs 21 comporta dover lavorare un anno in più, fino a 65 anni, per ricevere la stessa rendita che oggi riceverebbero lavorando fino a 64. Di fatto ci perdono, e non poco.

Mi scusi… Ma è così orribile lavorare? È anche una questione di valori. Ripeto: molte donne vogliono continuare a lavorare dopo i 64 anni.

Non molte infermiere, o molte donne impiegate nella ristorazione, nella vendita o in altri settori a bassi salari e dove il carico fisico e psichico è enorme.

Ha assolutamente ragione. È chiaro: ci sono dei percorsi di vita e dei settori che rendono difficile per le donne, e anche per molti uomini, proseguire l’attività professionale oltre una certa età. Per molti di loro anche 64 anni sono troppi. Ma non possiamo certo pretendere che Avs 21 risolva questi problemi, né di trovare l’età di pensionamento magica, che tenga conto di ogni situazione particolare. Soluzioni, come il pensionamento anticipato o di altro tipo, vanno trovate prima di tutto in seno ai vari rami professionali che conoscono questa realtà.

Sta di fatto che ora si domanda un sacrificio alle donne, che sono già svantaggiate – quando non discriminate – sul piano salariale, pensionistico, professionale e familiare.

Queste disparità di trattamento sono realtà persistenti: non le si possono negare, ed è deludente vedere quanto lentamente si avanzi in diversi ambiti. Queste disparità vanno combattute. Ma si tratta di una questione di fondo, di società. Non è opponendosi a una necessaria riforma dell’Avs, fragilizzando il primo pilastro, che le cose miglioreranno. Anzi, se adesso lo si fa, saranno proprio le donne più fragili, quelle che dipendono esclusivamente dall’Avs, che ne subiranno le conseguenze più pesanti. Dire ‘Diamo un anno in più di rendita alle donne, perché ci sono queste disparità’, non è un buon segnale. Il segnale giusto, invece, è quello che si vuole dare con Avs 21: la donna non deve più essere relegata a un ruolo sussidiario, quello che vuole che ancora nel 2022 vada in pensione un anno prima degli uomini.

Cifre nere nel 2020 e nel 2021; un Fondo ancora ben dotato; il Consiglio federale che ci dice che possiamo stare tranquilli ancora per qualche anno; l’Ufficio federale delle assicurazioni sociali che corregge le previsioni (in meglio) di 18 miliardi di franchi entro il 2032: dove sta tutta questa urgenza di ‘stabilizzare’ l’Avs?

Sono 25 anni che il modello non viene adeguato, che si procede con ritocchi puntuali: come nel 2019, con la riforma fiscale Rffa [che ha portato 2 miliardi di franchi all’anno nelle casse dell’Avs, ndr]. La sinistra ci dice che tutto va bene, e che troveremo sempre una soluzione.

Non dice che tutto va bene, ma che si può andare avanti così ancora per qualche anno.

Se le previsioni indicassero che il Fondo Avs scenderà in maniera modesta nei prossimi anni, appena al di sotto del 100%, allora sì potremmo agire in questo modo, con puntuali iniezioni di denaro. Ma non è così. Il problema è strutturale: il disequilibrio demografico, legato all’invecchiamento della popolazione, che stravolge il rapporto tra persone attive e pensionati. È matematico. Già nel 2012 un libro bianco dell’Ocse [l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ndr] diceva che l’invecchiamento della popolazione e l’aumento della speranza di vita avrebbero rappresentato una sfida enorme per le assicurazioni sociali di tutti i Paesi occidentali. La Svizzera non fa eccezione. Anzi: da noi la speranza di vita è persino più elevata della media europea. Questa sfida demografica, non possiamo far finta che non esista. Se non interveniamo, tra non molti anni il tasso di copertura del Fondo Avs sarà sceso ben al di sotto del 100%.

Matematico, ma non c’entra solo la demografia. L’Avs dipende almeno altrettanto dall’evoluzione della massa salariale.

Come può dire che la massa salariale aumenterà nei prossimi anni?

La produttività del lavoro aumenta, i salari anche, la presenza delle donne nel mercato del lavoro è sempre più diffusa.

Si spera che si vada avanti così. Ma non dimentichiamo che entro il 2035 andranno in pensione circa un milione di persone della generazione dei baby-boomers [nati tra il 1955 e il 1970, ndr].

Un fenomeno passeggero, che passerà.

Sì, ma le loro rendite dovranno essere pagate. E il Fondo Avs, stando alle previsioni ufficiali, non sarà in grado di garantirle.

Anche in caso di ‘no’ ad Avs 21 si potrà sempre intervenire ritoccando verso l’alto i contributi salariali o attraverso altri finanziamenti supplementari, afferma la sinistra.

È giusto che solo una parte della popolazione – le persone attive, giovani adulti compresi – venga chiamata alla cassa per finanziare un’assicurazione sociale della quale tutti approfittano? Per me questo non è difendibile sotto il profilo etico. Adesso aumentiamo l’Iva, nel 2019 con la riforma fiscale Rffa abbiamo aumentato i prelievi sui salari. È normale che adesso si ricorra ad altre leve. Che non sono molte: l’età di pensionamento, i contributi salariali, l’Iva, il contributo della Confederazione. Continuare a insistere su un aumento dei contributi salariali [che sono paritetici: pagati per metà dal datore di lavoro e per metà dal lavoratore, ndr] vorrebbe anche dire gravare sempre di più sulle aziende, già confrontate con un contesto economico molto complicato.

I sondaggi ci dicono che una maggioranza di donne è contraria ad Avs 21. Lo sente anche lei questo vento che soffia contro la riforma?

Determinati ambienti sono risolutamente contrari. E i sindacati non si fanno pregare, hanno portato il dibattito sul piano dell’emotività. Vedo però molte persone che non si lasciano influenzare, anche stufe di questi scontri sistematici. Persone che capiscono le implicazioni del progetto, che sono consapevoli della realtà dell’invecchiamento demografico e che pensano ai loro figli e nipoti. Anche perché il modello non viene stravolto, ma solo adeguato in maniera equilibrata per rispondere ai bisogni finanziari e alle crescenti esigenze in materia di flessibilizzazione della riscossione della rendita.

La riforma del secondo pilastro ha vita dura in Parlamento: la commissione non riesce a mettersi d’accordo sulle compensazioni per le donne. I sostenitori di Avs 21 hanno sempre promesso che, in cambio dell’aumento a 65 anni dell’età di pensionamento delle donne, vi sarebbero stati miglioramenti sostanziali per le donne nella previdenza professionali. Promesse da marinaio?

Per le donne le grandi lacune a livello pensionistico stanno nel secondo pilastro, non nel primo. L’uguaglianza è una realtà nell’Avs. Invece, nella previdenza professionale – quando ne hanno una – le donne sono molto svantaggiate. Riformare il secondo pilastro è molto complesso. Detto questo, mi rammarica il fatto che non si riesca a trovare un compromesso. Un progetto maturo, ragionevole e sostenuto da un’ampia maggioranza avrebbe potuto contribuire a rafforzare il sostegno ad Avs 21. Ma non bisogna per questo dire ‘no’ alla riforma del primo pilastro. Sarebbe un errore madornale.

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