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Asilo in Svizzera, ‘troppo poco tempo per fare ricorso’

La critica di Amnesty International: praticamente impossibile opporsi nelle procedure celeri. A colloquio con la giurista Alicia Giraudel

Procedure celeri non sempre eque
(Keystone)
7 aprile 2021
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Fino a centoquaranta giorni nei centri federali, fino a un anno quando si viene trasferiti in quelli cantonali. È il tempo che un richiedente asilo in Svizzera può trascorrere nelle strutture dedicate all’accoglienza. Se infatti per molti l’esame della richiesta in prima istanza dura appena 8 giorni lavorativi – poco, troppo poco secondo numerosi osservatori – i tempi si fanno giocoforza più lunghi nell’attesa di un rimpatrio o di una diversa sistemazione. Quali sono i principali problemi? In occasione della pubblicazione del Rapporto 2020/2021 sui diritti umani nel mondo lo chiediamo ad Alicia Giraudel, giurista, esperta di diritto d’asilo per la sezione svizzera di Amnesty International.

Com’è la situazione generale nell’accoglienza dei richiedenti l’asilo?

Noi osserviamo soprattutto i centri federali e possiamo dire che la Segreteria di Stato della Migrazione (Sem, ndr) continua ad adottare un regime molto orientato al controllo e alla sicurezza, col risultato che chi vi soggiorna affronta forti limitazioni nella vita quotidiana e notevoli violazioni della privacy. Le stanze vengono regolarmente ispezionate, le visite controllate meticolosamente e l’accesso della società civile – associazioni, giornalisti… – è scoraggiato. Allo stesso tempo, pur trattandosi di persone la cui storia personale è segnata da gravi traumi, vi è una cronica mancanza di personale addetto al sostegno psicosociale. Si predilige invece una sovrabbondanza di agenti di sicurezza. La struttura di accoglienza è molto standardizzata, con procedure accelerate di esame. Tempi e spazi ristretti, dati i quali il richiedente fatica perfino a distinguere il suo rappresentante legale dai funzionari della Sem.

Ci sono anche casi di abusi fisici?

Purtroppo ci sono state segnalate violenze sia sugli adulti che sui minori. Abbiamo tantissime segnalazioni, sulla base delle quali stiamo completando una ricerca capillare interpellando vittime e testimoni. D’altronde va detto che siamo in contatto regolare con le autorità e ci siamo già confrontati con la Sem. Devo dire che si sono dimostrati disposti a impegnarsi e stanno già sviluppando un piano per la prevenzione della violenza. È qualcosa di positivo, anche se ancora più utile sarebbe avviare indagini indipendenti sui casi di violenza.

Poi c’è la necessità di fornire supporto psicologico ai più fragili, che dati i trascorsi non devono essere pochi.

Siamo in dialogo con le autorità per un piano finalizzato a riconoscere e soccorrere in modo sistematico, proattivo e precoce le vulnerabilità dei richiedenti asilo. Oggi molto spesso è difficile per i rifugiati avere un accesso tempestivo al sistema sanitario. Un ostacolo che al di là della salute e dell’integrità personale rischia di compromettere anche le possibilità di ottenere l’asilo, nel caso in cui le autorità non riconoscano e riscontrino la gravità di situazioni che cambierebbero l’esito delle loro decisioni. Ricordiamoci che circa il 50-60% di chi deve fuggire da situazioni di guerra, violenza e privazione accusa disturbi di natura post-traumatica.

Cos’è cambiato con il coronavirus?

Il coronavirus ha comportato una maggiore chiusura che rende più difficile controllare la situazione, anche se naturalmente si comprende la necessità di restrizioni per garantire la protezione sanitaria. Anche per questo il tasso di occupazione dei centri è stato ridotto dalla Sem al 50%.

D’altronde anche i flussi migratori si sono prosciugati.

Questo ci porta a un’altra emergenza. Le persone si sono trovate bloccate in campi come quelli greci ed extraeuropei, in condizioni igieniche drammatiche. Intanto – anche a causa della pandemia – il numero di domande d’asilo è al livello più basso dal 2007. Con numerose petizioni abbiamo chiesto di riaprire le frontiere per non violare il principio del non respingimento e di accettare ulteriori rifugiati dalle isole greche. Sono stati accolti 54 minori con legami familiari in Svizzera, conformemente al regolamento di Dublino, e altri 38 dopo l’incendio che ha distrutto il campo di Moria a Lesbo. Niente di più. Il fatto che non si sia andati oltre in un periodo così critico ci ha delusi, anche perché sarebbe stato un bel segnale verso un’Europa sempre più ‘blindata’.

Il coronavirus ha reso più difficile il sostegno legale?

Certo, infatti avevamo chiesto la sospensione delle procedure d’asilo, come è successo per molte altre procedure di diritto civile e in tanti altri Paesi. Ciò avrebbe permesso di evitare che la pandemia aggiungesse ulteriori ostacoli in quella corsa contro il tempo che è diventata la richiesta di un permesso. Purtroppo ci è stato negato. Ci hanno concesso le dovute protezioni sanitarie durante le udienze – ad esempio le barriere di plexiglas – ma proprio in ragione della pandemia si è deciso che si potessero proseguire i colloqui anche senza il rappresentante legale.

Come si può migliorare la situazione?

È importante anzitutto estendere i termini per il ricorso legale nella procedura d’asilo celere. Non è possibile infatti opporsi efficacemente al rifiuto di un permesso in una sola settimana. Inoltre lo stesso Tribunale amministrativo federale ha chiesto alla Sem che si faccia meno ricorso alla procedura celere, che oggi interessa circa 4 casi su 5. Con soli otto giorni lavorativi a disposizione per evadere una domanda, è facile intuire quanto sia arduo verificare la storia di una persona, mentre la procedura ampliata concede un anno di tempo. D’altronde lo stress dovuto ai tempi ristretti mette in difficoltà gli stessi funzionari della Sem.

Un’iniziativa parlamentare chiedeva di introdurre nei codici federali un’eccezione per chi favorisce l’ingresso illegale per motivi umanitari. Nel 2020 è stata bocciata. Con quali conseguenze?

Si è scelto di non prevedere nell’articolo 116 della Legge federale sugli stranieri – che regola l’incitazione all'entrata, alla partenza o al soggiorno illegali – l’immunità in caso di comprovati motivi umanitari. È una stortura rispetto al diritto di molti altri Paesi europei e un problema grave, se si pensa che di 972 casi giudicati nel 2018 solo in 32 si è riscontrato un lucro da parte dei ‘passatori’: negli altri non c’era nessuno scopo economico. Si finisce per dover condannare chi fa entrare adulti e bambini evidentemente in grave difficoltà e bisognosi di soccorso, come capitato ad attiviste per i diritti umani quali Anni Lanz e Lisa Bosia Mirra. Consideri che si tratta di eccezioni già riconosciute da tutti i nostri vicini: Germania, Italia, Austria e Francia.

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