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L’accordo con l’Indonesia è un ‘modello da seguire’

Scende in campo il comitato interpartitico a favore dell’intesa. Ne parliamo con il consigliere nazionale Fabio Regazzi, presidente dell’Usam

Regazzi
(Keystone)
13 gennaio 2021
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“Molto più di un accordo doganale”, un accordo “pionieristico”, che allo stesso tempo favorisce gli scambi commerciali, rafforza l’economia svizzera e promuove la sostenibilità ambientale. Il, presidente dell’Unione svizzera delle arti e dei mestieri (Usam) e membro del comitato.

Libero scambio e sostenibilità ambientale fanno spesso a pugni. Perché invece questo accordo è un buon compromesso tra i due aspetti?

Questo è un buon accordo. Facilita gli scambi con un Paese da 265 milioni di abitanti, che conosce un forte sviluppo economico: si tratta di un mercato con un grosso potenziale per le nostre aziende. E ci permette di non focalizzare l’attenzione solo sulla Cina, che in Asia ha un ruolo dominante.

Servirà soprattutto alle grandi aziende legate all’esportazione. Cos’hanno da guadagnarci le piccole e medie imprese (Pmi) svizzere?

Non è vero. Bisogna sfatare il luogo comune secondo cui solo i grandi gruppi trarrebbero profitto dal libero scambio. Duecentomila Pmi fanno circa il 50% degli scambi commerciali [import ed export, ndr] della Svizzera. Per quanto riguarda l’Indonesia, un quarto delle esportazioni verso il Paese asiatico riguardano pezzi di meccanica, una produzione tipica delle piccole e medie imprese svizzere.

E la sostenibilità?

Tradizionalmente, gli accordi di liberi scambio si concentrano sugli aspetti prettamente economici (dazi, contingenti, ecc.). La Svizzera ha fatto un passo che non esito a definire pionieristico. Per la prima volta in un accordo di questo tipo – a livello svizzero ma, credo, anche sul piano internazionale – una riduzione dei dazi doganali viene concessa in cambio del rispetto di standard in materia di sostenibilità. E intendo sostenibilità in senso lato: non soltanto le norme ambientali, ma anche quelle sulla protezione dei lavoratori e sui diritti umani. I referendisti affermano che non è abbastanza. Io invito però a non sottovalutare il risultato raggiunto: siamo di fronte a un cambiamento di paradigma, stroncarlo sarebbe controproducente. Questo approccio innovativo potrebbe infatti fungere da modello, diventare lo standard di riferimento per future intese del genere, concluse dalla Svizzera (con il Mercosur o la Malaysia) o da altri.

Il viticoltore ginevrino Willy Cretegny, uno dei ‘padri’ del referendum, sostiene che le clausole sulla sostenibilità di questo accordo non sono altro che “fumo negli occhi”.

L’alternativa quale sarebbe?

L’olio di palma avrebbe potuto essere escluso dall’accordo. Ma è vero che l’Indonesia non ne voleva sapere...

Appunto. E allora, l’alternativa quale sarebbe? Niente. Avremmo magari potuto ottenere qualcosa di più, può darsi. Sta di fatto che questo è il risultato delle trattative. E questo accordo è indubbiamente un passo avanti, un salto di qualità rispetto alla situazione attuale. Ma soprattutto, apre nuove prospettive per i futuri accordi di libero scambio.

Il marchio Rspo, standard di riferimento per quanto riguarda la certificazione dell’olio di palma, è da molti ritenuta non all’altezza. Come si fa a fidarsi?

L’ordinanza, già messa in consultazione, contiene garanzie in questo senso.

Sempre sull’olio di palma: i referendisti deplorano l’assenza di controlli vincolanti, di sanzioni effettive e di un meccanismo per la composizione delle controversie.

Ripeto: questo è il risultato dei negoziati. Non sono in grado di dire se si poteva fare meglio. Non dimentichiamo però che l’olio di palma proveniente dall’Indonesia rappresenta una parte minima del volume complessivo di olio di palma importato in Svizzera [la materia prima viene importata in massima parte da Malaysia e Cambogia, ndr]. Se questo accordo verrà respinto, continueremo comunque a importare olio di palma dall’Indonesia; e lo faremo senza chiedere il rispetto degli standard sulla sostenibilità.

Meglio poco che niente, insomma.

Sì. La questione va vista in modo dinamico. Questo accordo pone le basi di un nuovo approccio al libero scambio. In futuro, l’asticella verrà alzata, passo dopo passo, man mano che la sensibilità dei consumatori si rafforzerà. Cominciamo adesso a mettere questa pietra angolare, così possiamo cominciare a costruire qualcosa in vista di future intese. Sarebbe miope buttare all’aria questo accordo. Miope e controproducente. Anche Mattea Meyer [consigliera nazionale e co-presidente del Ps svizzero, ndr] e Fabian Molina [consigliere nazionale del Ps e presidente dell’organizzazione di aiuto allo sviluppo Swissaid, ndr] se ne sono resi conto, cambiando idea nel frattempo. Persino Wwf, Greenpeace e Wahli [la maggiore organizzazione ambientalista indonesiana, ndr] si sono schierati a favore dell’accordo.

Non si corre il rischio di mettere ancora più sotto pressione i contadini svizzeri che producono olio di colza e girasole?

A me risulta che si tratti di prodotti complementari. L’olio di palma ha delle applicazioni che non possono essere coperte necessariamente da altri tipi di oli. I quantitativi in gioco, poi, sono esigui: l’accordo con l’Indonesia non farà triplicare i volumi di olio di palma importato in Svizzera. E se non prenderemo l’olio da lì, i bisogni della nostra economia verranno soddisfatti andando a prendere la materia prima dalla Malaysia, o da qualche altro Paese. E poi non parliamo di abrogare i dazi doganali: questi verranno semplicemente ridotti un po’, del 20-40%. Quindi sull’olio di palma rimarranno dei dazi doganali, proprio per tutelare i nostri agricoltori. Non a caso i vertici dell’Unione svizzera dei contadini sono favorevoli a quest’accordo.

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