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Aeronautica, Amherd in Ticino a ‘caccia’ di voti

Intervista alla Consigliera Federale in previsione del voto sui caccia. ‘Non esiste piano B’ ma occorre ‘migliorare la cultura dell'esercito’

La prima donna a capo della Difesa (Keystone)
22 agosto 2020
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6 miliardi per oltre una trentina di jet da combattimento, destinati a sostituire l’intera flotta Svizzera attorno al 2030: questo l’oggetto della votazione del prossimo 27 settembre che ieri sera ha portato in Ticino la Consigliera federale Viola Amherd, per un incontro organizzato a Lugano dalla sezione locale del ‘suo’ Ppd. La prima donna a capo del Dipartimento federale della difesa, della protezione della popolazione e dello sport (Ddps) non ha dubbi: i jet servono, «non c’è un piano B». Ma cosa se ne fa dei jet multiruolo – attrezzatura da combattimento, appunto – un Paese già protetto dallo scudo Nato nel quale è incastonato, neutrale, pacifico, circondato da potenze ‘amiche’, peraltro in un mondo nel quale gli scenari di guerra si fanno sempre meno tradizionali, tra cyberwarfare e guerre commerciali? «Le minacce per la popolazione sono molte. Ad esempio quella terroristica, per la quale è appunto molto importante la difesa dello spazio aereo», ci spiega Amherd. Nella malaugurata ipotesi di un aereo dirottato da abbattere si potrebbe probabilmente usare la difesa terra-aria, ma Amherd ribatte che «è comunque importante avere aerei di combattimento per sventare attacchi dal cielo, come pure per la polizia aerea: ad esempio per garantire la sicurezza dei partecipanti al World Economic Forum di Davos, oppure a una conferenza di pace a Ginevra».

Le alternative

Resta da capire se per il normale pattugliamento non basterebbero aerei più ‘leggeri’, quindi non solo più rapidi da far decollare e facili da manovrare, ma anche meno costosi, come i Leonardo italiani e i Golden Eagle sudcoreani. «Abbiamo studiato a fondo queste ipotesi e abbiamo concluso che questi aerei non raggiungono la velocità e l’altitudine necessari a fare polizia aerea, oltre a non disporre dei normali sistemi radar. D’altronde neppure l’Italia utilizza i suoi Leonardo per la polizia aerea, e nessun paese impiega a tale scopo gli aerei di addestramento sudcoreani». Certo, la società italiana ne sta sviluppando una versione adatta proprio a questo scopo, ma «non si può ancora sapere se funzioneranno, e noi non vogliamo acquistare degli aerei di cartone». Amherd rifiuta anche l’idea di approfittare dello scudo Nato – che in via indiretta protegge anche la Svizzera da minacce extraeuropee –, risparmiandosi così i costi di una difesa aerea nazionale: «Noi non siamo parte della Nato, in cui comunque ogni paese ha una difesa aerea. Questa è importante per la nostra neutralità, e penso anche che dobbiamo fare quello che ci spetta: non mi pare solidale dire ai paesi vicini che sono loro a dover garantire la sicurezza della nostra popolazione».

Amherd sa bene che questo – oltre a essere suo primo esame importante alle urne – è anche un referendum sul ruolo dell’esercito svizzero nel 21esimo secolo, quindi su un’istituzione il cui valore simbolico è centrale tanto per chi ne vorrebbe uno forte e potente, quanto per chi ritiene questa prospettiva ormai anacronistica e irrealizzabile. Secondo lei, per un esercito efficace «dobbiamo investire su molti fronti: è quanto facciamo su quello della guerra cyber, ma il sistema di difesa richiede che tutte le parti funzionino in maniera coordinata e complementare. Per questo non si può rinunciare alla difesa di terra e dello spazio aereo». Dunque Amherd non vede alternative: «Se la popolazione dirà di ‘no’, dovremo studiare e ripensare a fondo il ruolo dell’esercito, perché senza forze aeree non potrà essere la stessa cosa».

Chi paga e chi guadagna

Quanto alle questioni economiche, uno degli argomenti sui quali insiste il fronte del ‘sì’ è che i sei miliardi previsti per l’acquisto – cui a dirla tutta si dovrà aggiungere almeno il doppio per la gestione e la manutenzione della flotta, spalmati sui diversi decenni di utilizzo – sono già inclusi nel budget dell’esercito. Come dire: sono soldi che in un modo o nell’altro si spenderanno comunque. Però c’è anche chi suggerisce di approfittarne per tagliare proprio i fondi dell’esercito, a maggior ragione in vista di una crisi economica grave come quella causata dal coronavirus. Amherd non ci sta: «Le finanze della Confederazione sono comunque solide. Nel caso in cui dovessero in futuro essere necessari dei tagli è chiaro che tutti dovranno sacrificarsi, esercito incluso. Ma allora in ogni caso si tratta di fissare le giuste priorità». La Consigliera sottolinea anche l’importanza delle commesse ‘di compensazione’, ovvero quegli ordini provenienti dall’estero per le aziende svizzere, parte di un do ut des che dovrebbe riportare all’economia svizzera il 60% della spesa per i nuovi caccia: «È previsto che il 5% delle commesse vada al Ticino: ci sono aziende che possono approfittare dell’occasione per l’esportazione di tecnologie avanzate, come d’altronde è già accaduto in passato».

Una campagna diversa

Finora, Amherd e i sostenitori del ‘sì’ al credito hanno condotto una campagna molto diversa da quella che nel 2014 propose invano l’acquisto degli svedesi Gripen, anche perché – oltre al fatto di dover sostituire tutta la flotta e non solo una sua parte – sono cambiati i termini della consultazione. Intanto, in questo caso il Parlamento ha servito alla vallesana almeno due assist: anzitutto ha scorporato l'approvazione del credito dalla scelta del modello di aereo, sottraendo così la decisione a critiche di natura tecnica come coi Gripen (ora i modelli ‘papabili’ restano comunque quattro jet multiruolo: se l’F-35 di Lockheed Martin è giudicato da alcuni esperti come il più avanzato e il Super Hornet di Boeing è noto per l’ottimo rapporto qualità/prezzo, la scelta del francese Rafale o dell’Eurofighter rafforzerebbe i legami con l’Europa); e poi ha bocciato la proposta del Consiglio federale di rendere più difficile il passaggio al servizio civile dopo la scuola reclute: in apparenza un caso di ‘fuoco amico’, più probabilmente un modo per sottrarre al dibattito pre-votazione la contestazione di una svolta eccessivamente ‘militarista’ del governo e del Ddps.

Ma a differenziare in modo evidente questa campagna è anche la forte enfasi sul ruolo femminile: mentre con Ueli Maurer si puntava su figure maschili – e perfino i manifesti adottavano grafiche profilate in pieno stile Udc –, ora l’immagine veicolata è quella di un esercito decisamente più ‘umano’ e inclusivo: profili femminili sui manifesti, il ricorso alla pilotessa Fanny ‘Shotty’ Chollet quale volto della campagna. Una scelta che parla alle donne, le quali nel 2014 ebbero gran peso per il ‘no’ ai Gripen, ma che Amherd nega essere il frutto di una strumentalizzazione tattica o addirittura della riduzione della donna a un'esca elettorale (cosa che peraltro presupporrebbe il supino assenso della medesima, un pregiudizio tipicamente maschile): «Non capisco questa critica. Io stessa non posso cambiare il fatto di essere una donna, e promuovo la parità di genere da trent’anni. In questo senso trovo importante proporre modelli femminili, e una donna pilota merita di assumere questo ruolo».

RIFORME

‘Migliorare la cultura dell’esercito’

Amherd è la prima donna a capo del Dipartimento storicamente più odiato dai Consiglieri federali, dato che non sempre è facile gestire un’entità molto autonoma e a sé stante come l’esercito, peraltro storicamente associato a una certa cultura della virilità; il fatto di essere un’outsider ha reso inevitabile un periodo di rodaggio. A suo dire, tuttavia, non si registrano conflitti insormontabili. Anzi: «Finora credo che si sia costruito un dialogo positivo con i militari. Capita naturalmente che io porti idee diverse dalle loro, ma proprio questo permette un confronto stimolante e proficuo».

L’esercito, però, a volte è anche accusato di nonnismo ed eccessiva durezza nell’addestramento, come dimostrano alcuni recenti casi ticinesi. Nel 2018 una recluta ticinese era stata vittima di un lancio di sassi e noci. A Isone, lo scorso luglio, un granatiere è morto nel corso di una marcia, riaprendo così il dibattito sulla durezza dell’addestramento. «Casi isolati», assicura Amherd, che però nota come le sia «ben chiaro che dobbiamo sempre lavorare per migliorare la cultura che si respira all’interno dell’esercito.»

Quanto al soldato morto, «si è trattato di una tragedia oggetto d'indagini in corso. Faremo di tutto per capire quale sia stato il problema, ma penso che purtroppo si tratti di episodi che possono capitare anche nel privato. Non credo sia il sintomo di qualcosa che non funziona a livello organizzativo».

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