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'Teniamo tante vite nelle mani che ci laviamo'

Samia Hurst-Majno, medico e professoressa di bioetica all'Università di Ginevra, su alcuni dei quesiti etici posti dalla pandemia di coronavirus

(Ti-Press)
20 aprile 2020
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Restare a casa, tenersi a distanza gli uni dagli altri, lavarsi le mani per evitare di contrarre il Covid-19 o di contagiare. “La prudenza è un dovere morale di questi tempi”, ha scritto nelle scorse settimane sul ‘Bollettino dei medici svizzeri’ Samia Hurst-Majno, medico e professoressa di bioetica alla Facoltà di medicina dell’Università di Ginevra. “La questione etica fondamentale” adesso è questa: “cosa dobbiamo gli uni agli altri”. Perché “un momento di epidemia mostra in maniera evidente a che punto siamo interdipendenti”. “La maggior parte di noi non ha mai avuto tante vite letteralmente nelle proprie mani: nelle mani che ci laviamo più volte al giorno, con cura, sono anche gli altri che teniamo”, dice Samia Hurst-Majno a ‘laRegione’. Un semplice gesto, essenziale: “Più ci si lava le mani frequentemente e bene, più riduciamo il rischio di trasmettere il virus. Abbiamo una grande fortuna: il coronavirus viene distrutto dal sapone. Non tutti i virus sono così. E tutti noi dobbiamo approfittare di questa sua debolezza”.


Il Ticino ha chiuso tutte le attività produttive non essenziali, attribuendo una chiara priorità alla salvaguardia della salute pubblica. Non così il resto della Svizzera, dove la priorità alla salute pubblica è per così dire ‘temperata’ dalle esigenze dell’economia. A nord delle Alpi, per giunta, le grandi organizzazioni economiche e l'Udc spingono affinché si torni al più presto alla normalità. Siamo alle solite: al conflitto tra imperativi sanitari da un lato e ragioni dell’economia dall’altro?

Spesso salute ed economia vengono contrapposte: un’opposizione che ha qualcosa di affascinante, perché in gioco vi sono due valori faro della nostra società; e quando questi entrano in conflitto, reale o apparente, l’attenzione di tutti si risveglia. A mio parere questa contrapposizione è un po’ semplicistica. Salute ed economia sono strettamente connesse, non sono indipendenti l’una dall’altra. Non combattere con fermezza l’epidemia, significa ad esempio lasciare che il numero di morti aumenti in maniera significativa. E questo avrà un costo economico considerevole. La ricerca di un equilibrio è difficile: quanto dobbiamo schiacciare il freno per salvaguardare la salute dei cittadini e l’economia? In teoria, se con una bacchetta magica adesso potessimo immobilizzare tutti là dove si trovano, ad almeno due metri di distanza gli uni dagli altri, dopo un paio di settimane avremmo identificato e isolato tutte le persone malate, e l’epidemia sarebbe terminata. Nel frattempo, però, molti sarebbero morti di sete o di fame. Come si vede, non esistono soluzioni buone o giuste in assoluto. Si tratta di optare per il minore dei mali.

In tempi normali le cure mediche generali sono disponibili in grandi quantità e consumate con una certa disinvoltura. Adesso invece dobbiamo stare attenti a non intasare gli ospedali, e la presa a carico per i casi non urgenti può avvenire meno rapidamente del solito. Siamo in un certo senso costretti a rivoluzionare le nostre aspettative nel sistema sanitario.

Può sembrare così. Ma se ci pensiamo, ciò che sta capitando con questa pandemia avviene – puntualmente, certo – in occasione di ogni grande catastrofe. Ero medico al pronto soccorso dell’ospedale cantonale di Ginevra il giorno in cui ci fu l’incendio nel tunnel del Monte Bianco (1999, ndr). Ricevemmo l’ordine di predisporre l’accoglienza di “un gran numero di vittime” potenziale. Preparare l’ospedale significò mettere in pausa tutta una serie di prese a carico, affinché medici e infermieri potessero occuparsi dei feriti. Pazienti ricoverati al pronto soccorso vennero ad esempio trasferiti in reparto e curati da colleghe e colleghi che fecero ciò che avremmo fatto noi. La presa a carico cambiò, quantitativamente e qualitativamente. L’incendio però fu talmente grave che pochi sopravvissero, per cui alla fine l’ospedale non venne sommerso dai feriti. Questo tipo di preparazione è conosciuto e attuato negli ospedali. Semplicemente, quando si tratta di una catastrofe, non è visibile. Oggi, con questa pandemia, tutto questo processo si svolge in un arco di tempo più lungo, sotto gli occhi del grande pubblico, in modo trasparente. Per questo si ha l’impressione che sia qualcosa di radicalmente nuovo. Ma non è così.

In molti però ci rendiamo conto, forse per la prima volta, che le prestazioni sanitarie sono un bene limitato, al quale far capo con una certa circospezione.

Sappiamo che in tempi normali, i pazienti in Svizzera non utilizzano le prestazioni sanitarie a cuor leggero. Però è vero: qui siamo abituati diversamente. Abbiamo la fortuna di avere un sistema sanitario che risponde molto velocemente ai bisogni delle persone. Di regola l’attesa prima della cura non dura a lungo. Un momento di urgenza sanitaria come quello che stiamo vivendo, mostra in maniera evidente quanto sia importante la solidarietà. Prendiamo una persona che ora deve attendere per essere operata all’anca: pur avendo forti dolori, dovrà pazientare. Anche lei però potrebbe ammalarsi di Covid-19. È quindi pure nel suo interesse che dei posti in ospedale restino disponibili.

Posti letto, personale, materiale di protezione, ecc. sono limitati in particolare nei reparti di terapia intensiva. Le direttive dell’Accademia svizzera delle scienze mediche (Assm), alla cui elaborazione lei ha partecipato, avrebbero dovuto guidare i medici nel lavoro di ‘triage’, cioè nella scelta di quali pazienti curare in situazioni di sovraccarico dovute, ad esempio, a un’epidemia. Fortunatamente, non si è arrivati al punto di doverle applicare.

Per forza di cose, le direttive sono state scritte in poco tempo. La riflessione comunque va avanti da anni. Si tratta di principi fondamentali. È molto importante che, quando la pressione sul sistema sanitario aumenta, si continui a cercare di evitare il maggior numero di morti possibile. Ed è altrettanto importante che la vita di ciascun individuo abbia ugual valore: non ci dev’essere differenza di trattamento sulla base dello statuto sociale, del sesso, del luogo di domicilio, della nazionalità, dell’età, del tipo di patologia, di malattie pregresse, di chi arriva prima o altro.

Il fattore età, in questa pandemia, è al centro dell’attenzione. Quanto avrebbe pesato nel triage?

La vita ha sempre ugual valore, indipendentemente dall’età. Di per sé quello anagrafico non è un criterio da prendere in considerazione. Ma in certe malattie, l’età è un criterio di prognosi. Mi spiego. Il principio del ‘triage’ vuole che le cure siano focalizzate sulle persone che ne possono trarre maggior beneficio. Ma tale beneficio non si misura in termini di tempo. Non si tratta di contare il numero di anni che possono essere ‘salvati’. Ciò darebbe automaticamente un valore più elevato alla vita delle persone più giovani. Invece, se a causa di un sovraccarico totale delle capacità si dovessero respingere pazienti che necessitano di terapia intensiva, è la prognosi a breve termine il fattore decisivo per il triage. Un ricovero in cure intense dev’essere riservato a persone ‘sufficientemente malate’ e a coloro che non sono ‘troppo malati’, per i quali si sa già che tutti gli sforzi possibili risulteranno vani. In certe malattie, l’età è un criterio per poterle identificare. Nel caso del Covid-19, oltre una certa età l’anagrafe è un criterio per il triage. Il che non significa che se hai 90 anni e sei malato di coronavirus, sei sicuro di morire. Anche a quest’età, la maggior parte delle persone che si ammalano sopravvivono. Per contro, se hai 90 anni, sei malato di Covid-19 e hai una polmonite grave al punto da non lasciarti respirare senza l’ausilio di un macchinario, allora fai parte delle persone più malate e non si potrà fare più nulla per te. In questi casi senza speranza, si ha il diritto di non proseguire le cure intensive e di cambiare scopo verso le cure palliative. Non cambiare vuol dire occupare un posto letto che invece serve a chi una speranza ce l’ha. Vuol dire cioè avere due morti anziché uno.

La scelta, in situazioni simili, rischia di essere spesso quella di interrompere le cure. Una fonte di stress supplementare per il personale curante.

Sì. I professionisti della salute hanno dovuto cambiare il loro modo di lavorare. Sono state ampliate le capacità nei reparti di terapia intensiva. Molti medici e infermieri che abitualmente lavorano in altri reparti, adesso sono alle cure intense. Gli orari sono stati modificati, le vacanze sospese. C’è una grande motivazione, ma anche una grande fatica. Medici e infermieri possono venire confrontati con situazioni molto tristi, nelle quali si sopporta il fardello di dover prendere decisioni molto pesanti.

Anche la protezione del personale di cura figura tra i criteri definiti dall’Assm.

Proteggere il personale di cura significa non soltanto fornire loro il materiale di protezione adeguato (mascherine, camici, guanti, ecc.). Vuole dire anche offrire un sostegno a medici e infermieri affinché non vi sia un sovraccarico fisico e psichico. In diversi ospedali sono state istituite delle cellule di sostegno psicologico. E in molti ospedali svizzeri il personale di cura può contare anche su servizi di sostegno etico: degli specialisti possono essere chiamati a intervenire in appoggio, con dei consigli, a persone che si trovano confrontate con situazioni moralmente difficili. Per quanto possa constatare dal mio osservatorio, negli ospedali qui a Ginevra c’è un impegno, una motivazione e una solidarietà davvero impressionanti. Sin qui sono gli aspetti positivi a prevalere.

La morte per complicazioni legate al Covid-19 arriva senza il conforto dei propri cari. I familiari, che non possono essere fisicamente al capezzale del paziente, sono costretti a vivere a distanza il dolore. Un distacco improvviso, rapido, brutale.

È un aspetto estremamente importante di questa epidemia. Negli ospedali abbiamo visto come si cerchi di ovviare a questa assenza, a questa lontananza. Per esempio: infermieri e medici trasmettono via FaceTime le immagini delle persone ricoverate in cure intense ai loro familiari. In alcuni Paesi dove non c’è penuria di materiale di protezione, si sta pensando di mettere a disposizione dei familiari più stretti un piccolo stock ‘compassionevole’ di mascherine, guanti e camici, affinché possano venire al capezzale del congiunto che sta morendo. Un’altra questione andrà affrontata: è particolarmente importante, perché il processo di lutto inizi normalmente, che i familiari abbiano la possibilità di vedere il corpo del loro caro che se n’è andato. Servono soluzioni anche per questo.

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