Tennis

La storia del tennis è in fase di transizione

La disciplina trae giovamento dalla lotta sempre più affascinante tra chi resiste e chi è a un passo dalla vetta

30 novembre 2019
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Noblesse oblige, si parte dai soliti tre, per ricordare che il 2020 li vedrà ancora tutti protagonisti, e non è poco, anagrafe alla mano. Federer cercherà uno Slam per rintuzzare l’attacco di chi lo segue ormai da vicino. E poi ci sono i Giochi. La corsa all’oro è affascinante dalla notte dei tempi, perché non provarci? Il metallo prezioso già ce l’ha, ancorché condiviso. Venuta meno l’ossessione, potrebbe subentrare la spensieratezza di colui che, nei giorni di massima ispirazione, continua a non avere rivali. Rafael Nadal ha imparato a gestire bene il proprio statuario fisico, provato dalle mille e una battaglie. La sua agenda è meno fitta di un tempo, sul ‘rosso’ maramaldeggia e fa quello che vuole. Mai pago, mai domo (due virtù), ha ribadito che è un ‘animale’ da partita, come dimostra l’approccio alla Coppa Davis che ha vinto e festeggiato come se fosse il suo primo alloro. Sul vocabolario, alla voce ‘agonismo’ (quello sano) trovate ‘cfr. Nadal’. Tornando alle ossessioni, quella di Novak Djokovic per i titoli Slam lo carica di pressione. Il serbo è costretto dalla sua stessa strategia, adottata per soddisfare la sua fame di gloria, a non fallire negli appuntamenti più importanti, che in definitiva sono quattro. Anzi cinque, con le ‘Atp Finals’. Anzi sei, con i Giochi di Tokyo. Tutto il resto è diventato contorno, per Nole, ma questo non contribuisce a farne un campione universalmente adorato come vorrebbe essere, al pari dei suoi due rivali di sempre. Può raggiungerli e superarli in termini di titoli, ma non nel cuore degli appassionati che già più volte si sono espressi. Non certo a scrutinio segreto, bensì in maniera anche fin troppo palese.

Bando agli sbalzi umorali

Poi arrivano gli altri. Un tempo erano distanti, gli altri. Tanto lontani da non sembrare in grado di competere con quelli che la disciplina l’hanno ridefinita. Invece, vuoi per l’età del terzetto di sovrani che avanza, vuoi per i passi avanti fatti registrare da chi insegue, c’è stato un avvicinamento che rende il tennis meno prevedibile. Dominic Thiem, da terraiolo quale era, impegnato a picchiare forte a ridosso degli spalti, più che della linea di fondo campo, è avanzato di due metri buoni e ha imparato a giocare sul ‘duro’ e indoor. Mica poco. Anzi, fa tutta la differenza del mondo. Infatti è quarto, primo degli inseguitori, anche perché è da più tempo che semina, rispetto a colleghi più giovani di lui. Spiccano, a proposito, gli ex ‘Next Gen’ (scusate per le troppe x) Daniel Medvedev e Stefanos Tsitsipas. Entrambi si sono scrollati di dosso l’etichetta di campioni di domani, e sono riusciti a diventare fuoriclasse già oggi, nel tempo che è ancora segnato dalla presenza dei ‘’Fab 3’. Il greco è bello a vedersi, il russo no, ma ha imparato a vincere nonostante le sceneggiate che farebbe bene a evitare. Distolgono dall’obiettivo, costano energie, e non rendono simpatici: tre buoni motivi per cambiare atteggiamento. Se n’è accorto, il figlio d’arte, ma la teatralità ha ancora la meglio sulla natura di atleta impassibile quale parrebbe essere, fuor di sbalzi umorali dissennati.

Berrettini, talento e dedizione

È lo Slam il termometro della levatura del campione? Certo che lo è. Che ne è, quindi, di Alexander Zverev, in perenne disaccordo con i ‘major’? Potenziale e fisico sono da campione assoluto, ma il suo è un tennis prevedibile, senza guizzi né colpi letali. Vincerà ancora, piazzerà qualche acuto, ma gli manca un po’ di quell’estro che, riuscisse a farne una sua virtù, lo trasformerebbe in uomo Slam. Più di uno Slam.È lo Slam il termometro della levatura del campione? Certo che lo è. Che ne è, quindi, di Alexander Zverev, in perenne disaccordo con i ‘major’? Potenziale e fisico sono da campione assoluto, ma il suo è un tennis prevedibile, senza guizzi né colpi letali. Vincerà ancora, piazzerà qualche acuto, ma gli manca un po’ di quell’estro che, riuscisse a farne una sua virtù, lo trasformerebbe in uomo Slam. Più di uno Slam.Fiocco azzurro, a casa Italia. Nel senso che con Matteo Berrettini è nato un gran bel campione. Di modestia e di simpatia, tanto per gradire, e non guasta. Ma il 23enne romano non scherza neppure con i colpi. Certo, nemmeno lui ha un tennis sbarazzino e spettacolare, ma dalla sua ha una ‘fame’ e un’applicazione che possono fare la differenza, in un contesto tecnico un po’ appiattito dalla potenza comune a molti, e dal rovescio bimane comune a quasi tutti, ahinoi.Matteo è la dimostrazione che con solide basi di talento, tanto lavoro, l’aiuto delle persone giuste e, soprattutto tanta testa, sfondare è possibile. Anche partendo da molto lontano. Lascia forse il tempo che trova, ma viene spontaneo l’accostamento con Fabio Fognini: lui sì che ha un talento da Top-3, anche da numero uno al mondo. Lo frega la testa, però. Se Berrettini avesse l’estro tennistico, il tocco e la genialità (estemporanea) del collega ligure, sarebbe l’atleta perfetto, difficilmente battibile. Discorso assurdo? Forse sì, ma serve a ribadire quanto sia complicato coniugare tutte le sfaccettature possibili di un tennista professionista. Quando la natura provvede (o gli Dèi del tennis, per chi vuole scomodare concetti meno terreni), nasce Roger Federer. Ma quante volte nasce uno come Roger Federer?Kyrgios, l’imprevedibile Kyrgios. Lui sì che potrebbe incarnare la figura del fuoriclasse, tutto vincenti e magie. Peccato che preferisca bearsi di un talento straordinario, ostinandosi a sprecarlo, invece di tradurlo in trofei. Trovasse l’equilibrio tra la professionalità richiesta dal suo sport e le legittime concessioni alla sua natura folle, sarebbe un cliente scomodo per tutti, e non solo un paio di volte all’anno, come sempre accaduto finora, per effetto di misteriose (e rarissime) congiunzioni astrali.

Raonic e Nishikori in perdita di velocità

Da un protagonista mancato, a due che sono progressivamente venuti meno,  usciti dal Top-10 del quale hanno lungamente fatto parte: Milos Raonic vanta più infortuni che tornei vinti, ma non è che il tennis risenta in maniera particolarmente dolorosa della sua uscita di scena. Lo stesso dicasi per Kei Nishikori, anch’egli più volte tradito dal fisico, né ‘bello’ né divertente al punto da rimpiangerne le lunghe assenze.Per il tennis, per contro, è un bene che uno come Stan Wawrinka abbia deciso di lottare per rimettersi in gioco a fine carriera, riproponendosi quale valida alternativa ai soliti nomi, anche nei grandi appuntamenti: tre Slam, quel rovescio meraviglioso lì, un tennis capace di fare sobbalzare gli appassionati in tribuna, sono argomenti forti, fortissimi, che sarebbe un peccato non riuscire più a fare valere. La sua cocciuta risalita è un bello spot per lo sport. A proposito di argomenti, Reilly Opelka ne ha uno solo, ma riesce comunque a piazzare qualche vittoria, qua e là. Lo fa dall’alto (è il caso di dirlo) di un servizio che trae ispirazione da una statura non comune, più che dal talento. A volte riesce a mascherare imbarazzanti limiti tecnici e di mobilità con un colpo solo, e con qualche sporadica accelerazione ‘o la va o la spacca’ che gli vale qualche tie-break. Nella maggior parte delle volte non basta, per fortuna. Il tennis è altro.

In campo femminile valori complicati da definire. Anche Bencic ha un posto al sole

Passando in rassegna le prime dieci giocatrici al mondo, spicca, accanto al numero 8 (nel senso di ottava posizione), il nome di Belinda Bencic, protagonista di una scalata ai vertici culminata con la partecipazione alle ‘Finals’ di Shenzhen, nobilitate dall’accesso alle semifinali. In un ambito, quello del tennis femminile d’élite, in cui quasi nessuno brilla per continuità di rendimento, l’ascesa della sangallese è uno dei capitoli più belli di una storia che, complessivamente, non si può dire che abbia dispensato emozioni a piene mani. Passando in rassegna le prime dieci giocatrici al mondo, spicca, accanto al numero 8 (nel senso di ottava posizione), il nome di Belinda Bencic, protagonista di una scalata ai vertici culminata con la partecipazione alle ‘Finals’ di Shenzhen, nobilitate dall’accesso alle semifinali. In un ambito, quello del tennis femminile d’élite, in cui quasi nessuno brilla per continuità di rendimento, l’ascesa della sangallese è uno dei capitoli più belli di una storia che, complessivamente, non si può dire che abbia dispensato emozioni a piene mani. Il logico ridimensionamento di Serena Williams ha aperto una corsa alla successione un po’ confusa, e non sempre condotta da tenniste con tutti i requisiti tecnico-tattici del caso. Ashleigh Barty è una numero uno al mondo degna di tale statuto, non fosse che per i sette titoli Wta all’attivo, il trionfo alle suddette ‘Finals’ e al Roland Garros. Resisterà in vetta? Ai posteri l’ardua sentenza. Alle sue spalle le protagoniste sono più o meno sempre le stesse, seppur in posizioni diverse, mese dopo mese. Naomi Osaka, Simona Halep, Bianca Andreescu, Petra Kvitova... Cosa le accomuna? Hanno vinto tutte almeno uno Slam, e questo traguardo offre loro un posto nel Top-10 mondiale, nel quale soggiornano da tempo. È un privilegio che però sono chiamate a difendere con altri successi di pari livello, pena l’erosione del capitale di punti e di fiducia, strettamente legati l’uno all’altro. Nelle dieci troviamo anche Karolina Pliskova, Elina Svitolina e Kiki Bertens. In comune hanno la mancanza di un titolo Slam. Non hanno il guizzo, ma sono quantomeno costanti, e non è dote trascurabile. L’ucraina, poi, si consola con il titolo alle ‘Finals’ del 2018. Completano il quadro la citata Belinda Bencic, premiata con un posto al sole per la tempra esibita nella lunga e fortunata rincorsa, e Serena Williams, che di Slam ne ha 23. Numero uno ad honorem, e per sempre: altro non occorre dire. 

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