Tennis

Alessandro Cianfoni, campione di testa e grinta oltre gli ostacoli

Intervista al medico ticinese, che da oggi a Biasca cerca il 3° Masters di tennis in carrozzina. «E dire che per me il ‘vero’ sport era quello di squadra. Invece...».

Ti-Press/Gianinazzi
23 novembre 2018
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Oggi per un’ora di tennis farebbe follie. Del resto qualcuna l’ha fatta. Quando abitava negli Stati Uniti, giocava «anche alle quattro, le cinque». Come tanti. «Di mattina». Sorride, forse più per l’espressione di chi ha di fronte. Scusi, ha detto di mattina? «Sì, là i campi sono accessibili sempre. Qui ho provato, ma non mi aprono i circoli». Ride. Ma senza dubbio non scherza e se non fosse perché a una cert’ora tutte le strutture ticinesi chiudono, lo si troverebbe dietro a una pallina in piena notte con la stessa grinta messa nell’ora e mezza di allenamento appena conclusa sul tappeto blu e azzurro di Cadro.

È difficile immaginare che questo 46enne sprizzante vigore e tenacia da ragazzo la racchetta proprio non la considerasse; sebbene sia cresciuto nel circolo fondato dal nonno. «Giocavo a basket e a pallavolo, sciavo, praticavo nuoto. Ma il tennis no». Alessandro Cianfoni scoppia a ridere. «Forse succede così da bambini, quando hai una cosa sottomano».

«Senza competizione non potrei proprio vivere»

L’incidente sugli sci a 15 anni che gli ha compromesso l’uso delle gambe, non ha minimamente scalfito il suo approccio allo sport, «che è parte integrante di me. Senza di esso e senza competizione proprio non potrei vivere. Magari mi occorrerebbe qualche seduta psicanalitica per spiegare perché, ma credo di avere una forza che può ugualmente essere una debolezza: in generale sono molto autocritico poiché mi voglio sempre migliorare; al tempo stesso mi piace avere conferme esterne del fatto che io stia facendo bene. Penso sia questa la mia spinta nella vita, ciò che ad esempio mi ha fatto cambiare lavoro e assumere continue sfide professionali anche difficili. Così sono nello sport, pur con mezzi ridotti dati anche dal tempo limitato: quando raggiungo un obiettivo, già penso al prossimo».

Il prossimo, nell’immediato, è il Masters in programma da oggi a Biasca, del quale è uno dei favoriti. Dovesse vincerlo, potrebbe diventare il numero uno in Svizzera del tennis in carrozzina. E dire che aveva iniziato un po’ per caso... «Da subito ho apprezzato il dinamismo di questa disciplina, che richiede forza e potenza, ma anche fluidità, eleganza e tanto mentale. Inoltre permette di misurarsi con giocatori in piedi e può essere giocata all’aperto. Inoltre, e non guasta, si concilia meglio con lavoro e famiglia».

«Il viaggio mentale durante una partita, che fascino»

A volte, i casi della vita. Lo vedi allenare diritti e rovesci lungolinea con malcelata scocciatura quando il colpo non esce come vorrebbe e te lo immagini ‘nato’ per giocare a tennis. La grinta che mette fino all’ultima delle palline lanciategli dal coach, fa immediatamente dimenticare a chi lo osserva dalla panchina che Alessandro Cianfoni non sta solcando il campo a grandi falcate, ma è su una sedia a rotelle. E invece no, lui lo sport individuale lo aveva un po’ snobbato. «Avevo sempre pensato che quello di squadra fosse il vero sport. E invece...». Invece, spiega, ha scoperto «che il viaggio mentale di una partita di tennis ha un enorme fascino; perché dentro te stesso percorri tante fasi. Immagino sia così per tutte le discipline singole, però nel tennis questi momenti hai tutto il tempo di attraversarli e ti ci devi proprio lasciare andare. Devi sapere che può arrivare una fase negativa e che la devi saper gestire per poi lentamente entrare in quella positiva». Un incontro di tennis lo paragona a una bilancia: «Aggiungere anche un solo grammo sul tuo piatto, o toglierne uno all’avversario, può modificare significativamente il rapporto di forze in campo, dove gli equilibri sono delicatissimi».

Senza nulla togliere alla preparazione fisica, alla tecnica o alla tattica, Cianfoni – che di ostacoli, anche mentali, nella vita ne ha dovuti affrontare e saputi superare non pochi – designa il lato psicologico del tennis «un elemento di grande fascino. Come pure di grande fatica. Alla vigilia di un incontro, al pari del piacere, ci possono pure essere la paura o la volontà che finisca presto per non soffrire». Rammenta ancora le sue prime partite, quando stava a San Diego (Usa) e – racconta – per quanto giocasse in una categoria bassa, «per me costituivano una bella sfida. Perdevo sempre il primo set 6-0! Poi mi riprendevo e ricordo ancora nitidamente che avevo la sensazione di vedere la mia ombra sul campo crescere man mano che miglioravo. Al contempo l’avversario dall’altra parte della rete mi appariva più piccolo». Certo, afferma, non ha praticato questo sport a un livello professionistico tale da sviscerarne i vari aspetti mentali così a fondo. Resta il fatto che «da un match esci completamente drenato. Quando va bene, provi una sensazione di ‘empowerment’». Peraltro – spiega – di empowerment (in pedagogia e psicologia sociale: il processo di riconquista della consapevolezza di sé, delle proprie potenzialità e del proprio agire) si parla nello sport adattato in generale: ciò che non hai più, lo recuperi attraverso queste pratiche. «L’ho visto nei bambini, per i quali l’esercizio di una disciplina è un’arma (non in senso offensivo), una qualità nella loro vita grazie alla quale non vengono riconosciuti per la loro disabilità, bensì per lo sport che fanno. Cosa che poi vale anche da adulti».

Armi lui, campione di tennis per caso (o forse nemmeno troppo), ne ha parecchie. La racchetta è una. E anche se la utilizza senza alcuna intenzione offensiva, la maneggia con un ‘power’ tale che non vorremmo trovarci nei panni di avversario, dall’altra parte della rete. Nemmeno in piedi.

L’intervista completa sull’edizione cartacea della Regione di oggi.

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